lunedì 7 aprile 2008

Legge "Pecorella" : la Corte Costituzionale interviene ancora


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Consulta Online - Cronache
SENTENZA N. 85

ANNO 2008



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE COSTITUZIONALE



composta dai signori:

- Franco BILE Presidente

- Giovanni Maria FLICK Giudice

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Luigi MAZZELLA "

- Gaetano SILVESTRI "

- Sabino CASSESE "

- Maria Rita SAULLE "

- Giuseppe TESAURO "

- Paolo Maria NAPOLITANO "




ha pronunciato la seguente




SENTENZA






nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sostitutivo dell’art. 593 del codice di procedura penale, e dell’art. 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 26 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Roma, del 9 febbraio 2007 dalla Corte d’appello di Bologna e del 30 marzo 2007 dalla Corte d’appello di Bari, rispettivamente iscritte ai nn. 543, 668 e 742 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 32, 39 e 44, prima serie speciale dell’anno 2007.

Udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.



Ritenuto in fatto



1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, impedisce all’imputato di proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; nonché dell’art. 10 della medesima legge, nella parte in cui impone di dichiarare inammissibile detto appello, ove proposto anteriormente alla data di entrata in vigore della legge stessa.

La Corte rimettente riferisce di essere investita dell’appello proposto da tre imputati contro la sentenza emessa dal Tribunale di Frosinone il 2 marzo 2004, che aveva dichiarato non doversi procedere nei loro confronti in ordine ad una serie di reati (corruzione aggravata per atti contrari ai doveri di ufficio, truffa pluriaggravata e abuso in atti d’ufficio), per essere i medesimi estinti per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti contestate.

Il gravame – prosegue il giudice a quo – dovrebbe essere dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, non essendo più previsto l’appello come mezzo di impugnazione delle sentenze di proscioglimento.
Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disciplina.


È ben vero – osserva il giudice a quo – che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non risulta costituzionalizzato: tanto che si è discussa l’opportunità di abolire l’appello, sia per rendere più celere la definizione dei processi, che per eliminare il contrasto tra un giudizio di primo grado improntato all’oralità e un giudizio di secondo grado essenzialmente «cartolare».
Ma una volta che la legge n. 46 del 2006 continua a prevedere l’istituto, le limitazioni poste all’esperibilità di tale mezzo di impugnazione da parte dell’imputato si rivelerebbero contrarie tanto al principio di ragionevolezza, in correlazione al diritto di difesa; quanto al principio di ragionevole durata del processo.


L’esclusione di un secondo grado di merito, rispetto ai processi conclusisi in primo grado con una declaratoria di prescrizione, potrebbe ritenersi, difatti, ragionevole allorché sia non vi sia stato, in tali processi, «un sostanziale giudizio di merito»: come avverrebbe nel caso di sentenza emessa ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., con cui il giudice di prime cure si limita a delibare la non evidenza dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato.


Ben diversa sarebbe, invece, l’ipotesi in cui – come nella specie – si pervenga alla declaratoria di prescrizione del reato in esito ad una valutazione di merito, che presuppone il riconoscimento della colpevolezza dell’imputato: riconoscimento il quale non sfocia in una pronuncia di condanna solo a seguito della concessione di attenuanti, che fanno rientrare il reato nell’ambito di applicazione della causa estintiva. In tale evenienza, negare all’imputato la possibilità di ottenere la modifica della decisione, tramite un secondo giudizio «in fatto», costituirebbe soluzione irrazionale, ove si consideri che, in base alla normativa vigente, l’imputato può proporre appello anche solo per ottenere la riduzione della pena della multa; ma non quando – come nell’ipotesi oggetto del giudizio principale – sia stato ritenuto, nella sostanza, un «corrotto».


La soluzione normativa censurata violerebbe, altresì, il diritto di difesa: giacché se, da un lato, la sentenza dichiarativa della prescrizione non costituisce, in senso formale, una condanna e, pertanto, non può fare stato nei processi civili e amministrativi; dall’altro lato, però – a prescindere dall’influenza che la sentenza stessa può comunque dispiegare in detti processi – l’art. 24 Cost. assicurerebbe all’imputato il diritto ad esperire tutti i mezzi previsti dall’ordinamento (e l’appello lo è ancora) al fine di tutelare la propria «immagine morale»: immagine certamente compromessa da una pronuncia di prescrizione quale quella in discorso.


Da ultimo, l’innovazione introdotta dalla legge n. 46 del 2006 gioverebbe solo apparentemente alla celerità del processo. In realtà, precludendo all’imputato la possibilità di ottenere, con un secondo giudizio «di fatto», una assoluzione nel merito – e, quindi, di giovarsi del giudicato favorevole in un giudizio civile, amministrativo o disciplinare – la disciplina denunciata esporrebbe l’imputato stesso «all’alea di tre gradi di giudizio in sede civile e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo», in contrasto col principio della ragionevole durata del processo.



2. – Con l’ulteriore ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, rispettivamente, escludono che l’imputato possa proporre appello contro sentenze dichiarative di cause di non punibilità che hanno come presupposto un accertamento della responsabilità penale; e prevedono che un simile appello, ove proposto anteriormente all’entrata in vigore della legge, debba essere dichiarato inammissibile.

La Corte rimettente riferisce che, con sentenza del 3 ottobre 2002, il Tribunale di Ferrara aveva assolto due persone dal reato di cui all’art. 387 del codice penale (procurata evasione per colpa del custode), in quanto non punibili ai sensi del secondo comma dello stesso articolo (in forza del quale «il colpevole non è punibile se nel termine di tre mesi dalla evasione procura la cattura della persona evasa o la presentazione di lei all’Autorità»). Avverso la sentenza avevano proposto appello sia il pubblico ministero, chiedendo che la causa di non punibilità fosse esclusa e, quindi, la condanna degli imputati; sia questi ultimi, chiedendo di essere assolti per non avere commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato.

Ciò premesso, il giudice a quo osserva come l’«esimente speciale» di cui all’art. 387, secondo comma, cod. pen., da un lato, presupponga l’accertamento che il preposto alla custodia abbia cagionato colposamente l’evasione di un detenuto; e, dall’altro lato, non costituisca una causa di giustificazione, idonea ad escludere l’antigiuridicità del fatto, ma una semplice causa di non punibilità, prevista per evidenti ragioni di politica criminale. Tenuto conto anche delle possibili conseguenze amministrative, contabili o disciplinari della sentenza impugnata, risulterebbe dunque evidente l’interesse degli imputati ad ottenere una pronuncia assolutoria che escluda la commissione del fatto da parte loro o la sussistenza della colpa.

In tale ottica, le disposizioni censurate – che imporrebbero di dichiarare inammissibili i gravami degli imputati – violerebbero gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto renderebbero insindacabile nel merito una sentenza formalmente di non punibilità, ma che, in realtà, ha come presupposto un accertamento di responsabilità penale; con conseguente compromissione del principio di ragionevolezza e del diritto di difesa, anche nel merito, in ogni stato e grado del procedimento.



3. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, se non nelle ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva; nonché dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto dall’imputato contro una sentenza di proscioglimento, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, sia dichiarato inammissibile.

Il giudice a quo premette che, con sentenza del 14 aprile 2005, il Tribunale per i minorenni di Bari aveva dichiarato non doversi procedere per perdono giudiziale nei confronti di un minore, imputato dei reati di minacce, ingiurie, lesioni e danneggiamento; e che, contro tale sentenza, il minore aveva proposto tempestivo appello, onde ottenere un proscioglimento con formula più favorevole.

Ciò premesso, la Corte rimettente rileva che, ai sensi dell’art. 593 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006, l’imputato può appellare le sentenze di condanna, ma non quelle di proscioglimento, tra le quali rientra la sentenza di concessione del perdono giudiziale.

La limitazione del potere di appello dell’imputato alle sole sentenze di condanna – prosegue il giudice a quo – si giustificava, nell’originario disegno della novella del 2006, in quanto correlata alla quasi totale soppressione del potere del pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento. Tale giustificazione sarebbe, peraltro, venuta meno per effetto della sentenza n. 26 del 2007, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con il principio di parità delle parti – tanto dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui sottraeva al pubblico ministero il potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di nuova prova decisiva; quanto dell’art. 10, comma 2, della stessa legge, nella parte in cui prevedeva che l’appello precedentemente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento dovesse essere dichiarato inammissibile.

Di conseguenza, alla limitazione del potere di appello dell’imputato viene attualmente a far riscontro un potere di impugnazione del pubblico ministero intatto rispetto al sistema anteriore: con evidente vulnus dei principi di eguaglianza delle parti – in generale e nel processo penale – sanciti dagli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.

La limitazione in questione risulterebbe lesiva, altresì, del diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto l’imputato prosciolto con formula «non soddisfacente» potrebbe far valere le proprie ragioni solo in condizioni «nettamente deteriori» rispetto alla parte pubblica. Una giustificazione razionale di tale trattamento deteriore non potrebbe essere rinvenuta nella natura dei reati per cui si procede, giacché l’esclusione della facoltà di appello contro le sentenze di proscioglimento riguarda ogni tipo di reato; e neppure in una ipotetica soddisfazione «sostanziale» dell’interesse dell’imputato. Il proscioglimento con formule diverse da quelle della insussistenza e della mancata commissione del fatto – oltre a comprovare un «coinvolgimento» nel fatto stesso, che l’imputato dovrebbe avere il diritto di contestare in modo pieno – potrebbe essere, difatti, valutato (pur senza essere vincolante) nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. Ciò risulterebbe di tutta evidenza nel caso della sentenza che concede il perdono giudiziale, la quale implica un vero e proprio accertamento di responsabilità.



Considerato in diritto



1. – La Corte d’appello di Roma dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, non consente all’imputato di proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; nonché dell’art. 10, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui prevede che detto appello, ove proposto anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa, debba essere dichiarato inammissibile.

Il giudice a quo muove dal rilievo che la sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti implica, nella sostanza, un accertamento di merito in ordine alla colpevolezza dell’imputato. È ben vero, d’altra parte – osserva il rimettente – che il doppio grado di giurisdizione di merito non forma, di per sé, oggetto di garanzia costituzionale: ma una volta che la legge vigente continua a prevedere l’appello – consentendo all’imputato di proporlo anche solo per ottenere la riduzione della pena della multa – negare all’imputato stesso la possibilità di avvalersi di tale rimedio, per contestare l’affermazione di responsabilità insita nella sentenza in questione, costituirebbe scelta lesiva del principio di ragionevolezza.

Sarebbe vulnerato, altresì, il diritto di difesa: giacché detta sentenza di proscioglimento – pur senza essere vincolante – potrebbe influire sui giudizi civili e amministrativi, compromettendo, in ogni caso, l’«immagine morale» del prosciolto.

Le disposizioni censurate violerebbero, da ultimo, il principio della ragionevole durata del processo, in quanto – non consentendo all’imputato di ottenere, con un secondo giudizio di merito, l’assoluzione con formula ampiamente liberatoria e di giovarsi, quindi, del giudicato favorevole nei giudizi extrapenali – esporrebbero il prosciolto «all’alea di tre gradi di giudizio in sede civile e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo».



2. – I citati artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006 sono sottoposti a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., anche dalla Corte d’appello di Bologna, nella parte in cui, rispettivamente, escludono che l’imputato possa appellare le sentenze dichiarative di cause di non punibilità che hanno come presupposto un accertamento della responsabilità penale; e prevedono che l’appello anteriormente proposto contro tali sentenze vada dichiarato inammissibile.

Investita dell’appello proposto da due imputati contro la sentenza che li aveva assolti dal reato di cui all’art. 387 del codice penale (procurata evasione per colpa del custode), in quanto non punibili ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, la Corte rimettente osserva come l’«esimente speciale» prevista da quest’ultima disposizione presupponga l’accertamento del fatto contestato e della sua antigiuridicità, limitandosi ad escluderne la punibilità per ragioni di «politica criminale»: donde l’evidente interesse degli imputati – a fronte delle possibili conseguenze amministrative, contabili o disciplinari del suddetto accertamento – ad ottenere una pronuncia assolutoria con formula più ampia.

Impedendo di impugnare con l’appello una sentenza formalmente di non punibilità, ma che, in realtà, comporta un’affermazione di responsabilità penale – col risultato di renderla incensurabile nel merito – le disposizioni violerebbero, di conseguenza, tanto il principio di ragionevolezza che il diritto di difesa.



3. – La Corte d’appello di Bari sottopone a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost., l’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, novellando l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, se non nelle ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen., ove la nuova prova risulti decisiva; e l’art. 10, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui prevede che sia dichiarato inammissibile l’appello proposto dall’imputato contro una sentenza di proscioglimento, prima dell’entrata in vigore della novella.

La Corte rimettente osserva come la limitazione del potere di appello dell’imputato alle sole sentenze di condanna, introdotta dalla legge n. 46 del 2006, si giustificasse, nell’originario disegno della riforma, in quanto correlata alla quasi totale soppressione dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento. Venuta meno, tuttavia, quest’ultima – per effetto della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 26 del 2007 di questa Corte – alla perdurante limitazione del potere di appello dell’imputato si contrappone, attualmente, un potere di appello della parte pubblica intatto rispetto alla disciplina anteriore: donde un evidente vulnus del principio di eguaglianza delle parti – in generale e nel processo penale – sancito dagli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.

Risulterebbe leso, correlativamente, anche il diritto di difesa, giacché il proscioglimento con formule diverse da quelle della insussistenza e della mancata commissione del fatto comproverebbe un «coinvolgimento» nel fatto stesso, che l’imputato dovrebbe poter contestare in modo pieno: e ciò anche a fronte della possibilità che la pronuncia penale venga valutata – pur senza essere vincolante – nell’eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. La validità dell’assunto risulterebbe, d’altro canto, di particolare evidenza nell’ipotesi – oggetto del giudizio a quo – di proscioglimento per perdono giudiziale, trattandosi di pronuncia che implica una sostanziale affermazione della colpevolezza dell’imputato.



4. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe relative alle medesime norme, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.



5. – La questione è fondata, nei sensi e nei termini di seguito indicati.



5.1. – La legge n. 46 del 2006 – ispirata, secondo le univoche risultanze dei lavori parlamentari, al precipuo intento di sopprimere l’appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento – ha inciso, in modo parallelo, anche sullo speculare potere dell’imputato.



In base al nuovo testo dell’art. 593 cod. proc. pen., come riscritto dall’art. 1 della novella, l’imputato e il pubblico ministero possono appellare incondizionatamente – come già in precedenza – le sentenze di condanna (comma 1), fatta eccezione per quelle che abbiano applicato la sola pena dell’ammenda (comma 3). Di contro – ed in ciò risiede il novum della riforma – la norma in questione, prima dell’intervento di questa Corte con la sentenza n. 26 del 2007, consentiva tanto al pubblico ministero che all’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento solo in un’ipotesi del tutto marginale sul piano pratico, cioè quella della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado (in sostanza, nel corso del breve termine per appellare).

Al di sotto della formale equiparazione delle parti, tale assetto racchiudeva – avuto riguardo alle pretese sostanziali di cui le parti stesse sono portatrici – due asimmetrie di segno contrapposto.

Di fronte ad una pronuncia di primo grado totalmente sfavorevole, l’asimmetria era a svantaggio del pubblico ministero; quest’ultimo non poteva appellare la sentenza che avesse disatteso per integrum la pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa; invece, l’imputato era (ed è) ammesso a censurare con l’appello la sentenza che abbia completamente disatteso la propria affermazione di innocenza. Per contro, con riferimento all’ipotesi della decisione solo parzialmente sfavorevole, le posizioni risultavano – e risultano – invertite: il pubblico ministero è abilitato ad appellare la sentenza di condanna che abbia accolto solo in parte le proprie richieste; l’imputato, invece, non fruisce dell’omologo potere in rapporto alla sentenza di proscioglimento non integralmente satisfattiva.

In effetti, la categoria delle sentenze di proscioglimento – che la riforma assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all’appello dell’imputato – non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all’attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni ampiamente liberatorie – quelle pronunciate con le formule «il fatto non sussiste» e l’«imputato non lo ha commesso» – detta categoria comprende, difatti, sentenze che, pur non applicando una pena, comportano – in diverse forme e gradazioni – un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo. Paradigmatiche le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (nel regime anteriore alla legge 5 dicembre 2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; proscioglimento per cause di non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; proscioglimento per concessione del perdono giudiziale; quest’ultimo, in particolare, si traduce – per communis opinio – in una vera e propria affermazione di colpevolezza, non seguita dall’irrogazione della pena (peraltro con effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto comma, cod. pen.).

Come evidenziato da questa Corte in numerose decisioni – concernenti le disposizioni del codice di procedura penale del 1930 che ponevano ampi limiti all’appello dell’imputato contro il proscioglimento, sia dibattimentale (artt. 512 e 513) che istruttorio (artt. 387, 395 e 399) – sentenze come quelle dianzi indicate sono idonee ad arrecare all’imputato significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico (si vedano, con riguardo alle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato che presuppongano un sostanziale riconoscimento di colpevolezza, le sentenze n. 249 del 1989, n. 922 del 1988, n. 299 del 1985, n. 224 del 1983, n. 53 del 1981, n. 72 del 1979, n. 73 del 1978 e n. 70 del 1975; con riferimento al proscioglimento perché il fatto non costituisce reato, la sentenza n. 200 del 1986; con riguardo al proscioglimento per difetto di imputabilità, la sentenza n. 140 del 1989).



Il pregiudizio di ordine morale può risultare, in taluni casi, persino superiore a quello derivante da una sentenza di condanna: basti pensare al proscioglimento per totale infermità di mente o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, anche quando non venga applicata una misura di sicurezza (al riguardo, si veda la sentenza n. 151 del 1967).

I pregiudizi di ordine giuridico si connettono a loro volta, in via generale, alla possibilità che l’accertamento di responsabilità o comunque di attribuibilità del fatto all’imputato, contenuto nelle sentenze in questione – ancorché privo di effetti vincolanti – pesi comunque in senso negativo su giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto. Talora, peraltro, il nocumento giuridico può discendere dalla pronuncia in modo diretto, come nel caso della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, che disponga la confisca di beni dell’imputato (eventualmente, di rilevante valore). Rispetto a tale misura di sicurezza – per il disposto dell’art. 579, comma 3, cod. proc. pen. – si ritiene non possa venire comunque in rilievo la clausola di salvezza degli artt. 579 e 680, contenuta nell’art. 593, comma 1, cod. proc. pen.: clausola da cui un indirizzo interpretativo (peraltro non pacifico) desume che l’imputato avrebbe conservato, anche dopo la riforma, il potere di appellare quantomeno il capo della sentenza di proscioglimento relativo all’applicazione di misure di sicurezza.



5.2. – Con la sentenza n. 26 del 2007 questa Corte ha rimosso l’asimmetria introdotta dalla legge n. 46 del 2006, a svantaggio della parte pubblica, in punto di impugnazione delle decisioni totalmente sfavorevoli. Essa, infatti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost., dell’art. 1 di detta legge, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per l’ipotesi di novum probatorio; nonché della disposizione transitoria di cui all’art. 10 della legge stessa, nella parte in cui prevede che l’appello anteriormente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, è dichiarato inammissibile.

Nell’occasione – a fianco dei rilievi che hanno indotto a ritenere incompatibili con il principio di parità delle parti le previsioni censurate; e pur ribadendo che il doppio grado di giurisdizione non forma oggetto di autonoma garanzia costituzionale – la Corte, ha osservato come «l’inappellabilità – sancita per entrambe le parti – delle sentenze di proscioglimento» si prestasse «a sacrificare anche l’interesse dell’imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli». Profilo, questo, atto ad originare ulteriori dubbi di costituzionalità, in quell’occasione non sottoposti, peraltro, alla Corte stessa.



5.3. – Nell’odierno frangente, in cui proprio il tema dianzi indicato forma oggetto di scrutinio, non v’è dubbio che – al fine di assicurare il pieno rispetto dei parametri costituzionali evocati – la limitazione dei poteri di appello dell’imputato avverso le sentenze di proscioglimento, sancita dal comma 2 del novellato art. 593 cod. proc. pen., debba essere anch’essa rimossa: e debba essere rimossa – salvo quanto si osserverà poco oltre – nei termini ampi richiesti dalla Corte d’appello di Bari, con assorbimento dei petita più ristretti formulati dagli altri due giudici rimettenti, calibrati sulle ipotesi di specie.

Come già osservato in precedenza, difatti, la norma censurata – accomunando nel medesimo regime situazioni tra loro fortemente eterogenee – nega all’imputato, salvo il novum probatorio, un secondo grado di giurisdizione di merito nei confronti delle sentenze di proscioglimento, anche quando le stesse comportino una sostanziale affermazione di responsabilità o attribuiscano, comunque, il fatto al prosciolto, così da rendere configurabile un suo interesse all’impugnazione; e ciò pur a fronte del riconoscimento al pubblico ministero della facoltà di dolersi nel merito della sentenza di condanna, la quale abbia solo parzialmente recepito le richieste dell’accusa.

A ciò viene ad aggiungersi che, per effetto dell’intervento di riequilibrio operato dalla sentenza n. 26 del 2007 con riguardo all’ipotesi delle sentenze totalmente sfavorevoli, il pubblico ministero si trova, allo stato, a poter appellare incondizionatamente la sentenza di primo grado – diversamente dall’imputato – in rapporto ad entrambi gli esiti (proscioglimento e condanna).



Giova osservare ancora, sotto altro profilo, che – alla luce di un orientamento giurisprudenziale che appare ormai consolidato, dopo l’intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione sul punto – la legge n. 46 del 2006 non ha inciso, in senso limitativo, sul potere di appello della parte civile contro le sentenze di proscioglimento (al riguardo, si veda anche l’ordinanza n. 32 del 2007 di questa Corte). Ne consegue che anche rispetto a detta parte si riscontra un’analoga sperequazione, poiché la parte civile può appellare, a differenza dell’imputato, tanto la pronuncia assolutoria, quanto – ove vi abbia interesse – quella di condanna.



Tale assetto – palesemente asimmetrico – risulta lesivo sia del principio di parità delle parti (art. 111, secondo comma, Cost.), in quanto non appare sorretto – per quanto attiene ai rapporti tra imputato e parte pubblica – da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta e funzionale esplicazione della giustizia; sia dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante l’evidenziata equiparazione di esiti decisori tra loro ampiamente diversificati – quali quelli ricompresi nel genus delle sentenze di proscioglimento – nel medesimo regime di inappellabilità da parte dell’imputato.

Il medesimo assetto si pone correlativamente in contrasto con il diritto di difesa (art. 24 Cost.), al quale la facoltà di appello dell’imputato risulta collegata come strumento di esercizio (si vedano, in quest’ultimo senso, oltre alla sentenza n. 26 del 2007, la sentenza n. 98 del 1994 e le sentenze, sopra citate, relative alle disposizioni del codice di rito abrogato).

La residua censura della Corte d’appello di Roma, relativa all’asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo, resta assorbita.



6. – Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale vanno escluse, peraltro, le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta la sola pena dell’ammenda.

Al riguardo, va infatti rilevato come – nel ripristinare, dopo il rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello Stato, una sia pur limitata possibilità di appello delle sentenze di proscioglimento (quella legata alle nuove prove decisive): possibilità che il testo originariamente approvato non contemplava – il legislatore della legge n. 46 del 2006 abbia omesso di reintrodurre la previsione di cui al previgente art. 593, comma 3, seconda parte, cod. proc. pen., che dichiarava inappellabili le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa. E ciò quantunque il nuovo art. 593, comma 3, cod. proc. pen. continui a prevedere l’inappellabilità delle sentenze di condanna relative a contravvenzioni per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda.

Un simile regime potrebbe avere – teoricamente – una giustificazione ove si guardi al solo pubblico ministero, dal cui punto di vista il proscioglimento è un esito maggiormente sfavorevole rispetto alla condanna non congrua; ma non – per una ragione opposta – in relazione all’imputato. Appare, infatti, palesemente irrazionale che quest’ultimo sia ammesso ad appellare la sentenza che l’abbia prosciolto da una contravvenzione punibile con la sola ammenda (ancorché senza un pieno riconoscimento della sua innocenza), quando invece gli è precluso in radice l’appello contro la sentenza che, dichiarandone la responsabilità, abbia concretamente irrogato detta pena.

Occorre, dunque, evitare che la rimozione, con la presente sentenza, della condizione posta dalla legge n. 46 del 2006 all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dell’imputato, legata alle nuove prove decisive, generalizzi l’anzidetta incongruenza (circoscritta, attualmente, ad una ipotesi del tutto marginale, come appunto quella delle nuove prove decisive). A tal fine la declaratoria di incostituzionalità va limitata alle sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta, in concreto, la sola pena dell’ammenda (ossia dalle contravvenzioni punite solo con detta pena o con pena alternativa).

Tale soluzione appare maggiormente aderente alle linee generali del sistema rispetto all’altra – in astratto alternativamente ipotizzabile – di rimuovere, tramite lo strumento della declaratoria di incostituzionalità in via conseguenziale, la previsione del comma 3 dell’art. 593 cod. proc. pen., consentendo all’imputato di appellare anche contro le sentenze di condanna alla sola pena dell’ammenda; questa seconda soluzione assumerebbe carattere marcatamente “creativo”, determinando un risultato – la caduta di ogni limite oggettivo all’appello – privo di riscontro nel pregresso assetto dell’istituto ed estraneo alla stessa voluntas legis. Si deve escludere, infatti, che – al di là del difetto di coordinamento normativo dianzi evidenziato – il legislatore della legge n. 46 del 2006 intendesse innovare il regime anteriore, quanto alla sottrazione all’appello delle sentenze relative alle contravvenzioni di minore gravità. Militano in tal senso sia il mantenimento del limite oggettivo all’appellabilità delle sentenze di condanna, di cui al comma 3 dell’art. 593 cod. proc. pen.; sia il carattere, come detto, del tutto marginale dell’ipotesi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento introdotta dopo il rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello Stato; sia, infine, la circostanza che la legge n. 46 del 2006 aveva come obiettivo generale il contenimento, e non già l’ampliamento, dell’area dell’appellabilità.




7. – L’art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 cod. proc. pen., esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.

Correlativamente, va dichiarata l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della medesima legge dall’imputato, a norma dell’art. 593 cod. proc. pen., contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile.

La Corte – non potendo applicare l’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per la non omogeneità delle fattispecie – segnala tuttavia al legislatore l’opportunità di eliminare la dissimetria di poteri tra pubblico ministero e imputato, a svantaggio di quest’ultimo, escludendo l’appellabilità, anche da parte del pubblico ministero, delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa.



per questi motivi


LA CORTE COSTITUZIONALE



riuniti i giudizi,



1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva;



2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della medesima legge dall’imputato, a norma dell’art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile.



Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008.



F.to:

Franco BILE, Presidente


Giovanni Maria FLICK, Redattore


Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere



Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008.