sabato 11 ottobre 2008

Corte costituzionale, sentenza 336, depositata il 10 ottobre 2008 : art. 268 c.p.p., intercettazioni e diritti della difesa

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK                                             Presidente

- Francesco          AMIRANTE                                       Giudice

- Ugo                   DE SIERVO                                            

- Paolo                 MADDALENA                                        

- Alfio                 FINOCCHIARO                                      

- Alfonso             QUARANTA                                           

- Franco               GALLO                                                   

- Luigi                 MAZZELLA                                            

- Gaetano             SILVESTRI                                             

- Maria Rita         SAULLE                                                 

- Giuseppe           TESAURO                                              

- Paolo Maria       NAPOLITANO                                       

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 268 del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro con ordinanza del 22 dicembre 2005, iscritta al n. 570 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Visto l’atto di costituzione di N.P.;

         udito nell’udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, con ordinanza del 22 dicembre 2005 (pervenuta alla Corte costituzionale il 30 ottobre 2006), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo e terzo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 268 del codice di procedura penale, nella parte in cui consente di non depositare, o comunque di non mettere a disposizione dell’indagato e del suo difensore, quando ne facciano richiesta, le registrazioni di comunicazioni telefoniche poste a fondamento di una misura cautelare personale già eseguita, anche prima della procedura di deposito regolata dai commi 4 e seguenti dello stesso art. 268 cod. proc.pen.

Il giudice a quo è chiamato a valutare una istanza di revoca o sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere disposta nei confronti di persona accusata dei delitti di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis del codice penale) e usura (art. 644 cod. pen.).

La misura era stata applicata, alcuni mesi prima, sulla base degli elementi desunti da intercettazioni telefoniche e «ambientali», che il pubblico ministero richiedente aveva sottoposto al giudice della cautela solo per il mezzo di trascrizioni operate dalla polizia giudiziaria. La difesa dell’indagato aveva sollecitato il pubblico ministero a consentire l’ascolto e la riproduzione delle registrazioni originali, contando di dimostrare l’intervenuto travisamento della prova raccolta. Il magistrato inquirente, però, aveva respinto l’istanza, argomentando sul perdurante svolgimento delle indagini preliminari ed assumendo che il diritto difensivo di accesso alle registrazioni potrebbe esercitarsi solo dopo il deposito degli atti concernenti l’intercettazione («nella fase del subprocedimento che andrà ad instaurarsi dinanzi al giudice competente»).

La difesa dell’indagato si è dunque rivolta al giudice rimettente, con una domanda de libertate nel cui ambito assume che, nella specie, le trascrizioni di polizia utilizzate per la ricostruzione del quadro indiziario sarebbero inaffidabili, in quanto segnate da omissioni e ripetuti riferimenti a frasi incomprensibili, così da mutare il senso delle conversazioni intrattenute dall’interessato.

Per tale ragione, ed essendo la cautela fondata su prove inaccessibili per la difesa, è stata richiesta in via principale la revoca della misura in corso di esecuzione. In subordine, la difesa dell’indagato ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 268 cod. proc. pen., per l’asserito contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., «nella parte in cui non prevede il diritto alla trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni utilizzate in richiesta custodiale e nella conseguente ordinanza applicativa».

Il giudice a quo muove dalla premessa che il pubblico ministero avrebbe negato legittimamente l’accesso della difesa alle registrazioni che documentano le conversazioni intercettate. A partire dal comma 4, l’art. 268 cod. proc. pen. regola un procedimento che muove dal deposito dei verbali e delle registrazioni, e che subordina il rilascio di copie all’intervenuta celebrazione della cosiddetta udienza di stralcio, limitandolo dunque alle conversazioni indicate dalle parti e ritenute ammissibili dal giudice. La scansione dettata dalla norma, a parere del rimettente, non prevede alcuna deroga per la fase antecedente al deposito, neppure quando le conversazioni intercettate vengano utilizzate, a fini probatori, nell’ambito di un incidente cautelare.

Secondo il giudice a quo, la legge non preclude al pubblico ministero la trasmissione al giudice cautelare dei supporti magnetici o digitali che riproducono le comunicazioni intercettate. Tuttavia, secondo l’unanime orientamento della giurisprudenza, la richiesta di cautela può essere valutata ed accolta anche in base a trascrizioni informali, curate dalla polizia giudiziaria. In questi casi, la difesa resterebbe priva di accesso alle registrazioni: queste non sarebbero infatti comprese, non essendo state trasmesse al giudice, tra gli atti da depositare, a norma dell’art. 293 cod. proc. pen., immediatamente dopo l’esecuzione del provvedimento restrittivo; il deposito ai sensi dell’art. 268 cod. proc. pen., d’altra parte, può essere posticipato fino alla fine delle indagini preliminari, con ciò ritardando anche l’esercizio della facoltà difensiva di accesso agli atti ed alle registrazioni. In sostanza, al pubblico ministero sarebbe consentito di «non depositare o comunque di non mettere a disposizione dell’indagato e del suo difensore, che ne hanno fatto richiesta, le registrazioni delle conversazioni poste a base di una misura cautelare personale».

Il rimettente trova congruo, di fronte all’urgenza tipica dell’incidente cautelare ed alla perdurante segretezza delle indagini, che la legge non imponga il deposito delle intercettazioni e gli adempimenti conseguenti prima dell’uso delle risultanze a fini cautelari. Tuttavia le esigenze descritte vengono meno dopo la contestazione degli elementi indiziari acquisiti, e dunque non possono giustificare la perdurante esclusione della difesa dall’accesso alle registrazioni, specie quando venga negata la corrispondenza fra le trascrizioni redatte dalla polizia giudiziaria ed il contenuto effettivo dei colloqui intercettati.

Il giudice a quo, con specifico riguardo alla garanzia del diritto di difesa dopo l’esecuzione di un provvedimento cautelare, ricorda come la Corte costituzionale abbia dichiarato, con la sentenza n. 192 del 1997, l’illegittimità dell’art. 293 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà per il difensore di estrarre copia degli atti presentati con la richiesta cautelare. Per quanto escluse dal novero degli atti trasmessi dal pubblico ministero, le registrazioni dei colloqui intercettati costituirebbero «la reale fonte di prova» a carico dell’indagato, e dunque dovrebbero essere per lui accessibili (anche attraverso il rilascio di copia) come gli ulteriori atti posti a fondamento della restrizione di libertà. Nell’attuale contesto, la formula del diritto di «difendersi provando» resterebbe invece priva di contenuto, in diretta violazione dell’art. 24 Cost.

Secondo il giudice rimettente la disciplina censurata violerebbe anche il principio di parità tra accusa e difesa, e comunque il diritto dell’indagato a veder realizzate nel più breve tempo le condizioni necessarie per preparare la propria difesa (art. 111 Cost.).

L’intervenuta «pubblicazione» della prova dopo l’esecuzione del provvedimento restrittivo, infine, porrebbe le parti processuali su un piano di sostanziale parità, che dovrebbe implicare uguale trattamento anche nella prospettiva dell’art. 3 Cost. Ed invece, in base all’attuale disciplina, il pubblico ministero manterrebbe in via esclusiva la possibilità di accedere alla fonte «primaria» della prova medesima.

Il rimettente ribadisce che il diritto difensivo all’accesso non potrebbe considerarsi garantito dal comma 3 dell’art. 293 cod. proc. pen., dato che il deposito è prescritto solo per gli atti trasmessi con la richiesta cautelare, atti che il pubblico ministero non è tenuto ad integrare con l’inserimento dei supporti delle registrazioni. La prescrizione lesiva, tuttavia, è individuata nell’art. 268 del codice di rito, perché proprio tale norma (omettendo la previsione di un meccanismo di ostensione per il caso di incidente cautelare) consentirebbe di precludere l’accesso alle registrazioni, anche a fronte di una richiesta difensiva in tal senso, fino al deposito degli atti regolato dai commi 4 e seguenti.

In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che l’istanza de libertate sulla quale è chiamato a provvedere concerne persona ristretta nella libertà in base al tenore di comunicazioni che, secondo la difesa dell’interessato, sarebbero state travisate per effetto di una trascrizione sommaria, erronea ed incompleta.

2. – L’indagato nel procedimento principale si è costituito in giudizio con atto depositato il 20 dicembre 2006.

Dopo una sintesi delle scansioni procedimentali già illustrate dal rimettente, la memoria di costituzione elenca una serie di comunicazioni che la polizia giudiziaria avrebbe trascritto, e talvolta solo riassunto, in modo sommario ed incompleto.

Secondo la parte privata le richieste cautelari dovrebbero essere corredate, alla luce della giurisprudenza sul valore primario delle registrazioni come fonti della prova, dai relativi supporti magnetici o digitali, almeno nei casi in cui non possa essere tempestivamente osservato il disposto del comma 4 dell’art. 268 cod. proc. pen., che prescrive il deposito dei materiali concernenti l’intercettazione, salva appunto la possibilità di una deroga, entro cinque giorni dalla fine delle operazioni di ascolto. In ogni caso, non dovrebbe essere consentito al pubblico ministero di negare l’accesso alle registrazioni dopo l’esecuzione del provvedimento cautelare. Una tale preclusione frustrerebbe il principio di parità tra le parti ed il diritto al contraddittorio dell’accusato, il cui pieno esercizio richiede una cognizione delle fonti di prova analoga a quella dell’accusatore.

A «bilanciare» il sacrificio delle garanzie difensive non varrebbero esigenze di tutela del segreto investigativo o della riservatezza delle persone coinvolte nell’attività di intercettazione. La parte privata evidenzia infatti – in sintonia con i rilievi del giudice rimettente – che la doglianza prospettata concerne le sole comunicazioni poste a fondamento del provvedimento cautelare, dunque già «svelate» dall’inquirente e già ritenute rilevanti per il procedimento. Il riconoscimento del diritto alla copia, d’altro canto, non equivarrebbe ad una licenza di divulgazione delle registrazioni, la cui circolazione «esterna» resterebbe disciplinata dalle regole generali in materia di atti dell’indagine preliminare.

La norma censurata tradirebbe la ratio della già citata sentenza n. 192 del 1997, con la quale la Corte costituzionale ha stabilito che la privazione di libertà determina la necessità di un esercizio pieno del diritto di difesa, assicurato dalla «più ampia e agevole conoscenza degli elementi su cui è fondata la richiesta del pubblico ministero». D’altro canto, l’autonomia dell’incidente cautelare implica una specifica garanzia del contraddittorio, che non potrebbe essere limitata in ragione di procedure (quelle scandite dall’art. 268 cod. proc. pen.) che riguardano la formazione della prova per il procedimento di merito, nella sua specifica proiezione dibattimentale.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro dubita – con riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo e terzo comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 268 del codice di procedura penale, nella parte in cui consente di non depositare, o comunque di non mettere a disposizione dell’indagato e del suo difensore, quando ne facciano richiesta, le registrazioni di comunicazioni telefoniche poste a fondamento di una misura cautelare personale già eseguita, anche prima della procedura di deposito regolata dai commi 4 e seguenti dello stesso art. 268 cod. proc. pen.

2. – La questione è fondata nei limiti sotto specificati.

2.1. – L’art. 268, comma 4, cod. proc. pen. prescrive il deposito in segreteria delle registrazioni delle comunicazioni intercettate, unitamente ai decreti autorizzativi ed ai processi verbali delle relative operazioni di ascolto, entro cinque giorni dalla conclusione delle operazioni medesime. Se però dal deposito può derivare un grave pregiudizio per le indagini, il giudice autorizza il pubblico ministero a ritardarlo non oltre la chiusura delle indagini preliminari (comma 5). Dopo il deposito, che consente ai difensori di esaminare gli atti e ascoltare le conversazioni, si avvia la fase della cosiddetta udienza di stralcio, nel corso della quale il giudice acquisisce le comunicazioni indicate dalle parti, espunge, anche d’ufficio, le comunicazioni di cui sia vietata l’utilizzazione, dispone la trascrizione integrale delle sole comunicazioni acquisite, con le forme e le garanzie della perizia (comma 6).

Il comma 2 dello stesso art. 268 cod. proc. pen. consente la formazione dei cosiddetti «brogliacci», costituiti dai verbali nei quali è trascritto, a cura della polizia giudiziaria, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate. La trascrizione integrale, nella forma della perizia, è poi disposta dal giudice per essere, infine, inserita nel fascicolo per il dibattimento (comma 7).

Si deve rilevare che, in caso di autorizzazione al ritardo del deposito degli atti concernenti le intercettazioni, la trascrizione non può avere luogo prima che decorra il termine dilatorio accordato dal giudice e che vengano compiuti gli adempimenti prescritti dai commi 6 e seguenti dello stesso art. 268. Solo a questo punto i difensori possono estrarre copia delle trascrizioni e far eseguire la trasposizione della registrazione su nastro magnetico (comma 8).

2.2. – In caso di incidente cautelare, se il pubblico ministero presenta al giudice per le indagini preliminari richiesta di misura restrittiva della libertà personale, può depositare, a supporto della richiesta stessa, solo i «brogliacci» e non le registrazioni delle comunicazioni intercettate. In questo senso è orientata la costante e uniforme giurisprudenza di legittimità (explurimis, tra le più recenti, Cassazione penale, sentenza n. 36439 del 2004, sentenza n. 39469 del 2004). Tuttavia, la stessa giurisprudenza di legittimità è ugualmente costante ed uniforme nello stabilire che la trascrizione (anche quella peritale) non costituisce la prova diretta di una conversazione, ma va considerata solo come un’operazione rappresentativa in forma grafica del contenuto di prove acquisite mediante la registrazione fonica (ex plurimis, tra le più recenti, Cassazione penale, sentenza n. 4892 del 2003, sentenza n. 10890 del 2005).

3. – Il rimettente, dopo aver osservato che le norme vigenti non impongono al pubblico ministero il deposito delle registrazioni né l’obbligo di metterle a disposizione dei difensori, a loro richiesta, dubita della legittimità costituzionale del citato art. 268 cod. proc. pen. perché lo stesso, non prevedendo il diritto della difesa ad avere diretta cognizione di registrazioni di comunicazioni poste a base della richiesta e del successivo provvedimento restrittivo della libertà personale dell’indagato, menoma il diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), altera, a sfavore dell’indagato, la parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.) e non consente alla persona accusata di disporre delle condizioni necessarie a preparare la sua difesa (art. 111, terzo comma, Cost.). La disposizione censurata sarebbe inoltre lesiva del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge contenuto nell’art. 3 della Costituzione.

Ritiene questa Corte che l’ascolto diretto delle conversazioni o comunicazioni intercettate non possa essere surrogato dalle trascrizioni effettuate, senza contraddittorio, dalla polizia giudiziaria, le quali possono essere, per esplicito dettato legislativo (art. 268, comma 2, cod. proc. pen.), anche sommarie. È appena il caso di osservare che l’accesso diretto alle registrazioni può essere ritenuto necessario, dalla difesa dell’indagato, per valutare l’effettivo significato probatorio delle stesse. La qualità delle registrazioni può non essere perfetta ed imporre una vera e propria attività di «interpretazione» delle parole e delle frasi registrate, specie se nelle conversazioni vengano usati dialetti o lingue straniere. In ogni caso, risultano spesso rilevanti le intonazioni della voce, le pause, che, a parità di trascrizione dei fonemi, possono mutare in tutto o in parte il senso di una conversazione. Non v’è dubbio che la trascrizione peritale dei colloqui costituisce una modalità di valutazione della prova più affidabile di quanto non sia l’appunto dell’operatore di polizia ed, a maggior ragione, la sintesi che può essere contenuta nei «brogliacci». Il perito è un esperto, dotato di apparecchiature specifiche, ed opera nel contraddittorio tra le parti, eventualmente per il tramite di consulenti. Lo stesso fornisce una trascrizione letterale, ma anche indicazioni ulteriori, quando necessarie (intonazione della voce, lunghezza di una pausa etc.), che possono incidere sul senso di una comunicazione. La trascrizione peritale può contenere anch’essa componenti interpretative, ma è garantita dalla estraneità del suo autore alle indagini e dal contraddittorio.

È evidente che, in assenza della trascrizione effettuata dal perito, l’interesse difensivo si appunta sull’accesso diretto, tutte le volte in cui la difesa ritiene di dover verificare la genuinità delle trascrizioni operate dalla polizia giudiziaria ed utilizzate dal pubblico ministero per formulare al giudice le sue richieste. Si tratta proprio della fattispecie normativa oggetto del presente giudizio. La possibilità per il pubblico ministero di depositare solo i «brogliacci» a supporto di una richiesta di custodia cautelare dell’indagato, se giustificata dall’esigenza di procedere senza indugio alla salvaguardia delle finalità che il codice di rito assegna a tale misura, non può limitare il diritto della difesa ad accedere alla prova diretta, allo scopo di verificare la valenza probatoria degli elementi che hanno indotto il pubblico ministero a richiedere ed il giudice ad emanare un provvedimento restrittivo della libertà personale.

Occorre aggiungere che, in caso di richiesta ed applicazione di misura cautelare personale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – le esigenze di segretezza per il proseguimento delle indagini e le eventuali ragioni di riservatezza sono del tutto venute meno in riferimento alle comunicazioni poste a base del provvedimento restrittivo, il cui contenuto è stato rivelato a seguito della presentazione da parte del pubblico ministero, a corredo della richiesta, delle trascrizioni effettuate dalla polizia giudiziaria.

La lesione del diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost. si presenta quindi nella sua interezza, giacché la limitazione all’accesso alle registrazioni non è bilanciata da alcun altro interesse processuale riconosciuto dalla legge. Parimenti leso deve ritenersi il principio di parità delle parti nel processo sancito dall’art. 111, secondo comma, della Costituzione.

4. – La piena tutela del diritto di difesa e del principio di parità delle parti nel processo richiede una pronuncia di accoglimento di questa Corte, limitatamente alla mancata previsione, nell’art. 268 cod. proc. pen., del diritto dei difensori di accedere direttamente alle registrazioni, ottenendone la trasposizione su nastro magnetico.

La soluzione più ampia prospettata dal rimettente, riferita ad una procedura di deposito successiva all’esecuzione del provvedimento coercitivo, non è necessaria, nel particolare contesto qui in esame, per la garanzia dell’interesse difensivo tutelato dall’art. 24, secondo comma, Cost., e dunque non può essere accolta. Una previsione di deposito specificamente riferita all’incidente cautelare, ed alle sole comunicazioni poste ad oggetto della relativa richiesta, si risolverebbe in una regola processuale nuova e per molti versi anomala, a cominciare dal fatto che l’adempimento riguarderebbe atti non presentati al giudice, e sarebbe curato da un soggetto diverso dal giudice medesimo, il quale provvede direttamente, secondo il disposto del comma 3 dell’art. 293 cod. proc. pen., al deposito degli atti sui quali ha fondato la propria decisione.

L’interesse costituzionalmente protetto della difesa è quello di conoscere le registrazioni poste alla base del provvedimento eseguito, allo scopo di esperire efficacemente tutti i rimedi previsti dalle norme processuali. Nel caso che tali registrazioni non siano comprese tra gli atti trasmessi con la richiesta cautelare, la legittima pretesa difensiva di accedere alla prova diretta della comunicazione intercettata non è soddisfatta dal diritto di consultare gli atti depositati in cancelleria, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 293 cod. proc. pen., dopo l’esecuzione del provvedimento restrittivo. Dunque l’interesse in questione può essere assicurato con la previsione – pure prospettata dal rimettente in via subordinata – del diritto dei difensori di accedere alle registrazioni in possesso del pubblico ministero.

Tale diritto deve concretarsi nella possibilità di ottenere una copia della traccia fonica, secondo il principio già espresso da questa Corte con la sentenza n. 192 del 1997, a proposito degli atti depositati nella cancelleria del giudice dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza cautelare.

L’assenza di una previsione legislativa in tal senso è causa di illegittimità costituzionale della norma censurata. Né sarebbe sufficiente, per assicurare pienamente l’osservanza dell’art. 24, secondo comma, Cost., il ricorso all’art. 116 cod. proc. pen., che disciplina il rilascio di copie degli atti processuali. La suddetta norma infatti, vista congiuntamente all’art. 43 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, non attribuisce – secondo la giurisprudenza di legittimità – un diritto incondizionato alla parte interessata ad ottenere copia degli atti, ma solo una mera possibilità, giacché la richiesta, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo, deve essere valutata dal giudice. Tale previsione non avrebbe senso se la parte avesse un diritto pieno al rilascio della copia. Conferma di tale interpretazione viene tratta dal citato art. 43 disp. att. cod. proc. pen., il quale, nel prevedere che l’autorizzazione del giudice non è richiesta nei casi in cui è riconosciuto espressamente al richiedente il diritto al rilascio della copia, esclude implicitamente che esista un diritto generalizzato e incondizionato ad ottenere copia degli atti processuali (in questo senso le Sezioni unite della Corte di cassazione, sentenza n. 4 del 1995).

Di fronte a tale orientamento giurisprudenziale è necessario affermare in modo univoco che nella fattispecie normativa oggetto del presente giudizio, riferentesi alla tutela del diritto di difesa in relazione ad una misura restrittiva della libertà personale già eseguita, i difensori devono avere il diritto incondizionato ad accedere, su loro istanza, alle registrazioni poste a base della richiesta del pubblico ministero e non presentate a corredo di quest’ultima, in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla polizia giudiziaria.

Il diritto all’accesso implica, come naturale conseguenza, quello di ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni medesime.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 268 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, dopo la notificazione o l’esecuzione dell’ordinanza che dispone una misura cautelare personale, il difensore possa ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni intercettate, utilizzate ai fini dell’adozione del provvedimento cautelare, anche se non depositate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 ottobre 2008.

 

martedì 7 ottobre 2008

Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 10-07-2008) 23-09-2008, n. 36527


Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 10-07-2008) 23-09-2008, n. 36527

"E' applicabile l'indulto (di cui, nella specie, alla L. 31 luglio 2006, n. 241) alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento della persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 25 luglio 1988, n. 334".

Svolgimento del processo

1. - Con sentenza del 19/7/1999 la Corte d'appello di Milano, in applicazione della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate ed agli effetti dell'esecuzione della pena in Italia, riconosceva la sentenza 15/6/1989 della Crown Court di Strafford (U.K.), con la quale N.N. era stato condannato alla pena dell'ergastolo per omicidio volontario, determinando in trenta anni di reclusione la pena da eseguirsi nello Stato italiano.

Con ordinanza del 31/5/2007 la stessa Corte dichiarava inapplicabile al N. l'indulto di cui alla L. n. 241 del 2006, richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che aveva costantemente escluso l'applicabilità dell'indulto alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena ai sensi della citata Convenzione, sul duplice assunto che lo Stato di esecuzione è vincolato alla natura e alla durata della sanzione stabilite dallo Stato di condanna e che la modifica della durata della pena in senso favorevole al condannato è ipotesi eccezionale, prevista dall'art. 12 della Convenzione solo per effetto di "grazia, amnistia e commutazione della pena", ma non di indulto, istituto ivi non contemplato e l diverso dalla commutazione della pena.

2. - Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il N., il quale ne ha chiesto l'annullamento denunziando la violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b)-c)-c) in relazione agli artt. 174 c.p., artt. 9, 12 e 14 della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, art. 672 c.p.p. ed alla L. n. 241 del 2006.

Sostiene il ricorrente, anche con successiva memoria difensiva, che nell'espressione "commutazione della pena" di cui al citato art. 12 è ricompreso l'indulto, istituto che non trova un equivalente nella terminologia anglosassone nè in quella francese, essendo comunque manifesta la volontà di consentire nella fase esecutiva del giudicato straniero l'applicazione della generalità dei benefici che hanno ad effetto la riduzione della pena e che sono previsti dalla legislazione sostanziale e processuale sia dello Stato di condanna sia dello Stato in cui la persona condannata è trasferita, cui l'art. 9 affida l'esclusiva responsabilità dell'esecuzione.

Un'interpretazione difforme da quella invocata, ad avviso del ricorrente, esporrebbe la legge di ratifica della Convenzione a dubbi di costituzionalità, sottoponendo la persona condannata all'estero e trasferita in Italia ad un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto alla persona giudicata e condannata in Italia.

3. - La Prima Sezione, ritenuto di dover condividere la soluzione interpretativa difforme dal costante indirizzo di legittimità, che motiva l'inapplicabilità dell'indulto alla persona condannata all'estero e trasferita in Italia con riguardo alla formulazione letterale e alla natura eccezionale del citato art. 12 della Convenzione, sul rilievo che esso, in effetti, designa con i termini "grazia, amnistia e commutazione della pena" qualsiasi istituto corrispondente nei singoli ordinamenti all'esercizio di un potere di clemenza, in forma individuale o generalizzata, con ordinanza del 12/3 - 22/5/2008, sussistendo una situazione di potenziale contrasto giurisprudenziale, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, cui il ricorso è stato assegnato dal Primo Presidente per l'odierna udienza in camera di consiglio.

Anche la Procura Generale presso questa Corte, convenendo con la tesi del ricorrente e sottolineando la precipua finalità della Convenzione di dare ingresso in sede di esecuzione della pena a qualsivoglia trattamento più favorevole al condannato, ha modificato le precedenti conclusioni ed ha chiesto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata.
Motivi della decisione

1. - Le Sezioni Unite sono chiamate a rispondere al quesito "se sia applicabile l'indulto (di cui, nella specie, alla L. 31 luglio 2006, n. 241) alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate, ratificata e resa esecutivi in Italia con L. 25 luglio 1988, n. 334".

Sulla questione di diritto la Corte di cassazione ha da tempo espresso un orientamento interpretativo univoco nel senso che, ai sensi degli artt. 9 e 12 della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, non è applicabile il beneficio dell'indulto in favore di persona condannata all'estero e detenuta in Italia (Cass., Sez. 1^, 29 gennaio 2008 n. 10266, Nogarin; Sez. 1^, 20 dicembre 2007 n. 2106, PG in proc. Falcone; Sez. 1^, 5 dicembre 2007 n. 47005, Lenti; Sez. 1^, 31 ottobre 2007 n. 42420, Adesso, rv. 237971; Sez. 1^, 25 ottobre 2007 n. 40804, P.G. in proc. Perinato; Sez. 1^, 11 aprile 2007 n. 19444, Greco; Sez. 6^, 21 marzo 2007 n. 17804, Melina, rv. 236583; Sez. 1,14 marzo 2007 n. 19076, P.G. in proc. Poma, rv.

238434; Sez. 1^, 23 gennaio 2007 n. 17583, Cutrona, rv. 236510; Sez. 4^, 14 dicembre 2000, Di Cesare, rv. 217967; Sez. 1^, 28 febbraio 1997, Giacon, rv. 207188; Sez. 6^, 7 ottobre 1994, P.G. in proc. Falci, rv. 199937; Sez. 1^, 22 giugno 1994, Pileggi, rv. 198914).

Le ragioni addotte a sostegno dell'ormai consolidata soluzione ermeneutica possono essere sinteticamente individuate: a) nel vincolo sancito dall'art. 10 della Convenzione per lo Stato di esecuzione, il quale deve, in linea di principio, conformarsi alla natura giuridica e alla durata della sanzione così come stabilite dallo Stato di condanna; b) nell'argomento di ordine letterale desunto dalla circostanza che l'art. 12 della Convenzione autorizza lo Stato di esecuzione alla modifica della durata della pena in senso favorevole al condannato unicamente nei casi di concessione della grazia o dell'amnistia e di commutazione della pena, senza includere il diverso istituto dell'indulto; c) nell'impossibilità di assimilare l'indulto agli istituti previsti dall'art. 12, aventi ciascuno un preciso significato tecnico-giuridico; d) nella natura eccezionale e di stretta interpretazione della previsione contenuta nell'art. 12, non suscettibile perciò di interpretazione analogica o estensiva.

Si aggiunge, in una delle più recenti elaborazioni del tema (Sez. 1^, n. 42420/07, Adesso, cit.), che il lemma "commutazione" assume nell'ordinamento interno un preciso significato tecnico giuridico:

l'art. 174 c.p., stabilisce che "l'indulto ... condona in tutto o in parte la pena inflitta, ovvero la commuta in una altra specie di pena stabilita dalla legge", con l'effetto alternativo di estinguere, in tutto o in parte, la pena (condono), ovvero di trasformarla in un'altra sanzione meno afflittiva prevista dalla legge (commutazione); sicchè l'art. 12 della Convenzione farebbe riferimento solo a una delle due forme dell'indulto, la commutazione della pena, ma non anche al condono, istituto questo peculiare del nostro ordinamento e non comune alla generalità degli ordinamenti degli Stati firmatari della Convenzione.

2. - E però, deve darsi atto che la linea interpretativa stabilmente seguita dalla Corte di cassazione è decisamente criticata dalla dottrina e non ha incontrato il consenso unanime della giurisprudenza di merito, non mancando in quest'ultima decisioni (App. Caltanissetta, 9/5/2002, 30^; App. Roma, 21/9/2006, B. e App. Catanzaro, 1/12/2006, Vizza, in Foro It., 2007, 2^, 60) che, in aperto e consapevole dissenso dalla giurisprudenza di legittimità, hanno affermato posizioni favorevoli all'applicazione dell'indulto ai condannati trasferiti in Italia per l'espiazione di pene inflitte all'estero.

Le Sezioni Unite, alla stregua di un'attenta valutazione delle ragioni addotte a sostegno dell'una o dell'altra tesi, opportunamente rimeditate con riguardo alle osservazioni critiche sia della Sezione rimettente sia del Procuratore Generale, ritengono che l'indirizzo, pur costantemente enunciato finora dalla giurisprudenza di legittimità, non possa essere condiviso e che l'opposta soluzione sia sorretta da argomenti maggiormente affidabili sul piano logico e sistematico.

3. - Mette conto preliminarmente di sottolineare che il metodo interpretativo da adottare per l'esatta ricostruzione del contenuto delle norme della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate deve ispirarsi alle direttive contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, stipulata il 23 maggio 1969, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 12 febbraio 1974, n. 112, che stabilisce criteri ermeneutici non sovrapponibili a quelli utilizzati per l'interpretazione delle disposizioni dell'ordinamento interno.

Con particolare riguardo alla disciplina dettata dall'art. 31 (Regola generale di interpretazione"), art. 32 ("Mezzi complementari di interpretazione") e art. 33 ("Interpretazione dei trattati autenticati in due o più lingue") della sezione 3 della parte 3^ di detta Convenzione, sulla "interpretazione dei trattati", rilevano i seguenti criteri: qualsiasi espressione di un trattato dev'essere interpretata "in buona fede"; si presume, salvo diversa e certa intenzione delle parti, che il significato obiettivo di un determinato termine coincida con il "senso ordinario" dello stesso;

questo va ricercato nel "contesto" ed alla luce dello "scopo" e dell'"oggetto" del trattato; il "contesto" comprende, oltre al testo, il preambolo ed ogni altro accordo o strumento ad esso assimilato intervenuto tra le parti, come ad esempio il Rapporto esplicativo;

sono consentiti mezzi complementari di interpretazione per ottenere la conferma o il chiarimento del senso risultante dall'operazione ermeneutica svolta sulla base dei criteri principali.

Si ritiene altresì pacificamente che costituisca regola generale d'interpretazione dei trattati, implicitamente inclusa nell'are. 31 par. 1, il principio "ut res magis valent quam pereat, in base al quale, tra più significati attribuibili ad una determinata espressione, deve privilegiarsi quello che consente alla norma di produrre un determinato effetto, piuttosto che quello che la rende superflua; e si aggiunge che tutti i principi elencati devono essere presi in considerazione nel loro complesso, non potendo ritenersi completa un'interpretazione che escluda uno di essi, dovendo tutti, cumulativamente, concorrere a determinare l'esatto significato della singola disposizione in esame.

4. - La Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate, adottata il 21 marzo 1983, fu sottoposta alla ratifica parlamentare mentre era in corso l'esame del disegno di legge governativo sugli "effetti delle sentenze penali straniere ed esecuzione all'estero delle sentenze penali italiane", presentato nella 9^ Legislatura (S/1741), ripresentato nella successiva Legislatura (S/774) e poi abbandonato all'esito della ratifica della Convenzione e in vista dell'approvazione del nuovo codice di rito. Va rimarcato, per quanto possa rilevare ai fini della ricostruzione storica del problema interpretativo in esame, che nel disegno di legge si prevedeva, tra l'altro, all'are 20 che "sono regolate dalla legge italiana l'estinzione delle pene conseguenti al riconoscimento della sentenza straniera e la concessione della grazia, dell'amnistia e dell'indulto".

La Convenzione di Strasburgo costituisce uno strumento elaborato dal Consiglio d'Europa allo scopo (esplicitato sia nel Preambolo sia nel Rapporto esplicativo) di facilitare il trasferimento nello Stato di cittadinanza delle persone condannate all'estero mediante una procedura semplice, rapida e flessibile.

La cooperazione, in un quadro uniforme che riserva ai singoli accordi in forma semplificata tra gli Stati di volta in volta interessati la decisione sul trasferimento dell'esecuzione, è diretta alla buona amministrazione della giustizia ed a favorire il reinserimento sociale e la riabilitazione dei condannati nell'ambiente sociale d'origine (finalità, questa, che il Rapporto esplicativo, par. 23, definisce "primary purpose" della Convenzione), rilevandosi altresì che il rimpatrio dei detenuti nello Stato di nazionalità, condizionato dal consenso del detenuto e giustificato da ragioni umanitarie (difficoltà di comunicazione, alienazione dalla cultura e dalle tradizioni locali, assenza di contatti con i familiari), deve comunque costituire "the best interest of the prisoners as well as of the governments" (Rapporto esplicativo, par. 9).

Una volta raggiunto tra gli Stati interessati l'accordo per il trasferimento della persona condannata, l'art. 9 della Convenzione indica due, alternativi, meccanismi opzionali di riconoscimento della sentenza ai fini dell'esecuzione: la continuazione (art. 10) o la conversione della pena (art. 11).

Lo Stato di esecuzione, mentre con la prima procedura prosegue idealmente l'esecuzione della condanna già iniziata presso lo Stato che l'ha pronunciata, pur con taluni possibili adattamenti, con la seconda procedura di riconoscimento ("ex equatur") sostituisce il titolo esecutivo originario con una propria decisione, senza entrare nel merito dei fatti accertati, così che l'esecuzione non è più basata direttamente sulla sentenza dello Stato di condanna.

Nella L. 25 luglio 1988, n. 334, di ratifica ed esecuzione della Convenzione è stato indicato (art. 3) nella "continuazione" il meccanismo scelto dall'Italia, mentre la L. 3 luglio 1989, n. 257, recante, tra l'altro, norme di attuazione della Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, stabilisce che neldeterminare la pena la corte d'appello applica i criteri previsti nell'art. 10 della Convenzione (art. 3, comma 2) e che tale corte è equiparata, a ogni effetto, al giudice che ha pronunciato sentenza di condanna in un procedimento penale ordinario (art. 4, comma 1):

disposizioni, queste, che vanno infine integrate con l'art. 738 c.p.p., comma 1 per il quale "le pene ... conseguenti al riconoscimento sono eseguite secondo la legge italiana". 4.1. - Qualunque sia l'opzione prescelta, l'esecuzione della pena è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione (art. 9. par. 3):

riferimento questo che va interpretato "in a wide sense" au sense large", così da comprendere "ad esempio, le regole per l'ammissibilità alla liberazione condizionale", dovendo essere chiaro che la direttiva comporta che "the administering State alone shalle be competent to take all appropriate decisions" (Rapporto esplicativo, par. 47).

L'art. 10 a sua volta, stabilisce, quanto al meccanismo della continuazione, che lo Stato di esecuzione è vincolato alla natura giuridica e alla durata della condanna come determinate dallo Stato di condanna. Ciò comporta "che la condanna da eseguire, soggetta ad ogni ulteriore decisione dello Stato di esecuzione, ad esempio sulla liberazione condizionale o sulla riduzione della pena "remissione" "remise de peine"), corrisponda all'ammontare dell'originaria sentenza, tenuto conto del periodo già sofferto e di ogni riduzione maturata nello Stato di condanna prima del trasferimento" (Rapporto esplicativo, par. 49). Attese le differenze tra i sistemi penali degli Stati aderenti, la Convenzione consente anche a quelli che optano per la continuazione di "adattare" la sanzione ("merely to adapt the sanction"), purchè vengano rispettati certi limiti: la pena così adattata deve, possibilmente, corrispondere a quella imposta, non dovendo in ogni caso essere più grave, per natura o durata, e non deve eccedere la pena edittale massima prevista per lo stesso fatto dallo Stato di esecuzione (Rapporto esplicativo, par.

50).

Orca i rapporti tra la regola stabilita dall'art. 9, par. 3 e il vincolo posto dall'art. 10 per lo Stato di esecuzione di rispettare la quantità di pena imposta dallo Stato di condanna, questa Corte ha in più occasioni affermato che, se va rispettata la "durata della sanzione" nell'adattamento della pena, per le modalità di trattamento penitenziario e per le misure ad esso relative nella fase dell'esecuzione deve tuttavia applicarsi la normativa vigente nello Stato di esecuzione (Cass., Sez. 1^, 30 marzo 1999, Di Carlo, rv.

213490 e Sez. 6^, 7 ottobre 2003 n. 42996, Mazzucchetti, rv. 228190, in tema di liberazione anticipata e, rispettivamente, di affidamento in prova). L'unico divieto concerne l'applicabilità di una misura più grave per natura o durata della sanzione imposta nello Stato di condanna, mentre non esiste il divieto di imporre una pena in misura meno grave rispetto a quella dello Stato di condanna (Cass., Sez. 6^, 13 gennaio 1999 n. 180, P.G. in proc. van Dijck, rv. 212568).

Sulla portata della regola indicata dall'art. 9, par. 3 della Convenzione va segnalato anche il Rapporto al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sulla Raccomandazione 1527 (2001) del 27 giugno 2001, approvato il 23 gennaio 2003 (doc. CM/AS (2003) Rec 1527 final, Appendice, punto 9, iii), con il quale s'invitava il Comitato:

a fare chiarezza che la Convenzione non è designata ad essere usata per l'immediata liberazione della persona condannata una volta rimpatriata; a chiedere agli Stati contraenti di non rifiutare il trasferimento a motivo della possibilità del condannato di beneficiare di una liberazione anticipata nello Stato di esecuzione;

a specificare la soglia minima della pena che deve essere scontata (per esempio, il 50%), sotto la quale gli Stati possono rifiutare legittimamente il trasferimento, ma sopra la quale dovrebbero facilitarlo.

Alla base di tale Raccomandazione vi era, tra l'altro, il Rapporto del Committee on Legal and Human Rights del Consiglio d'Europa del 7 giugno 2001 (doc. n. 9117 del 7/6/2001 "Operation of the Council of Europe. Convention on the Transfer of Sentenced Persons - critical analysis and recomendations", parte 2^, p. D, par. 24 e ss.), che, nell'illustrare le problematiche attinenti alle differenze esistenti nelle modalità di esecuzione della pena negli ordinamenti degli Stati interessati, rilevava che il meccanismo della Convenzione comporta, sulla base dell'art. 9 par. 3, che la pena da scontare possa essere ridotta rispetto a quella imposta in origine: ciò in quanto l'esecuzione è governativa dalla legge dello Stato che accoglie la persona trasferita, che è l'unico competente ad adottare tutte le decisioni "on remission of sentence, parole, early release etc.", determinando un trattamento più clemente e la liberazione anticipata del condannato.

4.2. - L'art. 12 della Convenzione prevede che ogni Parte può accordare "pardon, amnesty or commutation of the sentencs" - "la gace, l'amnistie ou la commutation de la peine", conformemente alla Costituzione e alle proprie leggi. Il Rapporto esplicativo, par. 59, chiarisce che, benchè lo Stato di esecuzione sia l'unico responsabile per l'esecuzione della pena, "inclusa ogni decisione correlata (ad esempio, la decisione di sospendere l'esecuzione)", i relativi provvedimenti possono essere accordati anche dallo Stato di condanna, sicchè la norma costituisce un'eccezione alla regola stabilita dall'art. 9, par. 3 della Convenzione.

Sull'ampiezza del potere attribuito ad entrambi gli Stati dall'art. 12, mentre l'Italia non ha espresso alcuna riserva, hanno avanzato dichiarazioni procedurali soltanto l'Azerbaijan, per cui le decisioni riguardanti l'applicazione di "pardons and amnestoes" in relazione a sentenze pronunciate in tale Stato dovranno essere concordate con le competenti autorità, e la Germania, che si è riservata il diritto di trasferire un condannato solo a condizione che, sulla base di una dichiarazione fatta caso per caso o in via generale dallo Stato di esecuzione, il "pardon" sarà concesso da quest'ultimo solo in accordo con le competenti autorità tedesche.

L'art. 14 della Convenzione prevede che lo Stato di esecuzione debba porre termine all'esecuzione della condanna non appena lo Stato di condanna l'abbia informato di qualsiasi provvedimento che tolga carattere esecutivo alla stessa, quali ad esempio quelli indicati al citato art. 12 (Rapporto esplicativo, par. 63).

In ogni caso, lo Stato di esecuzione è tenuto ad informare lo Stato di condanna sullo stato dell'esecuzione (art. 15), in particolare quando ritiene cessata l'esecuzione della condanna, ovvero in caso di "sentence served, remission, conditional release, pardon, amnesty, commutation" - "condamnatio purgeè, remise, liberation conditionelle, grace, amnistie, commutation (Rapporto esplicativo, par. 64).

4.3. - Al fine di migliorare le modalità di cooperazione contenute nella Convenzione di Strasburgo del 1983, nell'ambito del programma di misure per l'attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni penali tra gli Stati appartenenti all'Unione Europea, è stata elaborata la proposta - non ancora formalmente approvata (per il testo più recente v. doc. n. 5602/08 del 21 aprile 2008 - COPEN 12) - di Decisione quadro "relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell'Unione Europea" (doc. Consiglio UE n. 5597/05 del 24/1/2005). In essa si esplicitano talune regole già contenute nella suddetta Convenzione, come quella dell'esecuzione della pena secondo la legislazione dello Stato di esecuzione (art. 17), rimarcandosi che le autorità dello Stato di esecuzione sono le sole competenti a prendere le decisioni concernenti le "modalità" di esecuzione e a stabilire tutte le misure che ne conseguono, compresa la liberazione anticipata o condizionale. Qualora lo richieda, lo Stato di condanna può ottenere informazioni in ordine alle disposizioni applicabili in materia di liberazione anticipata o condizionale, per revocare la richiesta di trasferimento. In ordine ai provvedimenti di clemenza, l'art. 19 conferma che "l'amnistia o la grazia possono essere concesse dallo Stato di emissione nonchè dallo Stato di esecuzione".

Identiche disposizioni sono contenute nella Decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, approvata il 24 febbraio 2005 e relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie, rispetto alla quale la L. 25 febbraio 2008, n. 34 (legge comunitaria 2007) reca la delega al Governo per l'adozione del decreto legislativo di attuazione, nel senso di "prevedere che eventuali provvedimenti di amnistia o grazia possano essere concessi sia dallo Stato di decisione che dallo Stato italiano" (art. 32, lett. m).

4.4. - Il quadro normativo di riferimento in materia di trasferimento di persone condannate va integrato, infine, con il richiamo delle disposizioni contenute in alcuni Trattati bilaterali sottoscritti dall'Italia.

Nel trattato di cooperazione per l'esecuzione delle sentenze penali con la Thailandia del 28 febbraio 1984, ratificato con L. 27 luglio 1988, n. 369, si stabilisce che lo Stato ricevente può applicare le proprie leggi e le procedure che regolano le modalità di esecuzione della detenzione o delle altre forme di restrizione della libertà, della sospensione condizionale e di "parole" nonchè quelle che regolano la "riduzione dei termini di detenzione" a seguito di provvedimento di "parole", di liberazione condizionale o di "altro" tipo di provvedimento ("or otherwise"). Si prevede inoltre che spetta "anche" allo Stato trasferente il potere di graziare il condannato o di commutargli la pena.

Nel trattato con il Perù del 24 novembre 1994, ratificato con L. 24 marzo 1999, n. 90, si prevede all'art. 10 che lo Stato trasferente si riserva la facoltà di condonare la pena o concedere amnistia o grazia alla persona condannata e che l'esecuzione della pena della persona trasferita dev'essere effettuata conformemente alle norme del regime penitenziario dello Stato ricevente, ivi compresi i benefici contemplati dalla sua legislazione e quelli concessi dallo Stato trasferente.

Nel trattato con Hong Kong del 18 dicembre 1999, ratificato con L. 11 luglio 2002, n. 149, si stabilisce all'art. 6 che si applicano le leggi e le procedure dello Stato di esecuzione in ordine alla riduzione del periodo di reclusione, ai provvedimenti di "parole", remissione, commutazione, liberazione condizionale ed "altro".

Nel trattato per l'esecuzione delle sentenze penali tra Italia e Cuba del 9 giugno 1998, ratificato con L. 18 luglio 2000, n. 207, si prevede all'art. 12 che "ognuno degli Stati potrà concedere grazia, amnistia o indulto alla persona condannata, in conformità alle sue leggi, comunicandolo immediatamente all'altro Stato". 5. - Tanto premesso, le Sezioni Unite ritengono, in primo luogo, che il dato letterale che fa leva sull'omessa menzione dell'indulto nel testo dell'art. 12 della Convenzione di Strasburgo del 1983 non assuma decisivo rilievo ermeneutico, atteso che: - la Convenzione è redatta nelle due lingue ufficiali del Consiglio di Europa; - la traduzione in lingua italiana non è ufficiale; - l'"indulto" - "condono", totale o parziale, della pena ai sensi dell'art. 174 c.p., comma 1 (diverso dall'indulto meramente commutativo, pure unitariamente delineato nella medesima norma), a differenza della grazia, dell'amnistia e della commutazione della pena, corrisponde ad un istituto ignoto ovvero definito in termini non analoghi negli ordinamenti degli altri Stati contraenti, in particolare del Regno Unito e della Francia.

Il Rapporto esplicativo chiarisce, infatti, che rientra nei poteri dello Stato di esecuzione ogni decisione di "remission of the penalty" - "remise de peine" (par. 49 e 64) ed è interessante rilevare che con tale espressione sia stata tradotta la nozione di "indulto" in taluni documenti dell'Unione Europea elaborati in lingua italiana (lingua ufficiale): ad esempio, nella proposta di decisione del Consiglio che istituisce il sistema europeo di informazione sui casellari giudiziari (ECRIS: doc. n. COM (2008) 332 del 27 maggio 2008), fra i parametri comuni di misure incidenti sulla condanna soggetta ad iscrizione, è previsto, nella versione italiana, l'indulto (remission of the penalty" - "remise de peine"), oltre alla grazia e all'amnistia.

Del pari, l'indulto previsto dalla legge italiana è identificato nella "remise de peine" dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (Cedu, 13 maggio 1980, Artico c. Italia, par. 45;

Cedu, 10 luglio 2003, Grava c. Italia, par. 31 ss.; Cedu, 2 marzo 2006, Pilla c. Italia, par. 19), come in altri documenti di fonte internazionale.

Definisce "remise de peine" (d'origine parlamentaire) l'indulto secondo la legge italiana uno studio comparativo condotto dal Senato francese nel 2007 sugli istituti demenziali previsti in taluni Stati europei (Les documents de travail du Senat, serie Legislation Compareè, l'amnistie et la grace, doc. LC 177, 1 ottobre 2007), rilevando che in Italia e in Portogallo sono previste forme di remises de parte del Parlamento, simili alla "grazia collettiva" (pardon coltective), che, tradizionalmente concessa dal Presidente della Repubblica in occasione della festa nazionale francese, comporta una "remise partielle de peine" per le persone detenute o condannate da calcolarsi sulla pena da scontare; secondo tale studio, anche in Belgio e in Olanda si è fatto ricorso a grazie collettive, accordate dal Re. E la Corte di cassazione francese (Cour de cassation, Chambre Criminelle, 10 marzo 1998, n. 97-81.151), in relazione al trasferimento di un condannato dal Regno Unito, ha sostenuto che, in base agli ara. 9, par. 3, e 10, par. 1 della Convenzione di Strasburgo, alla residua pena da scontare si applica la legislazione francese, escludendo peraltro nella specie, ma soloratione temporis, l'applicazione di una "remise de peine resultant du decret de grace collective" emanato prima del trasferimento del condannato in Francia.

In particolare, circa la figura del "collective pardon", risulta dai documenti del Consiglio d'Europa che tale istituto, distinto dall'amnistia, è previsto oltre che in Italia (così è definito l'indulto ex L. n. 241 del 2006) in Austria, Armenia, Belgio, Francia, Moldovia, Portogallo, Romania, Slovacchia, Macedonia.

I "collective pardon", sono presi in considerazione nell'Appendice par. 23 alla Raccomandazione R(99)22 adottata il 30 settembre 1999 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, riguardante il sovrapopolamento delle carceri, che, nell'incoraggiare lo sviluppo di misure per ridurre la durata delle pene da scontare, indica la preferenza per misure individuali come il provvedimento di parole, rispetto a misure collettive per lo svuotamento delle carceri (amnesties, collective pardons).

L'eterogeneità degli istituti di clemenza previsti dalle legislazioni dei Paesi europei è stata rilevata, d'altra parte, sia dalla Commissione europea nel Libro verde sull'avvicinamento, il reciproco riconoscimento e l'esecuzione delle sanzioni penali nell'Unione europea (doc. n. COM (2004) 334 del 30 aprile 2004, par.

3.1.8., pag. 36), per cui "le legislazioni degli Stati membri sull'amnistia e la grazia differiscono considerevolmente", sia dall'Avvocato Generale della Corte di giustizia delle C.E.C. nelle conclusioni presentate l'8 aprile 2008 nella causa G 297/07 (parte D, par. 80), riguardante la questione pregiudiziale dell'applicazione del principio di ne bis in idem caso di mancata esecuzione della pena per effetto di "amnistia". Con questo termine, ha osservato l'Avvocato Generale, si definisce, in un'accezione ampia, "qualsivoglia misura di perdono o remissione delle pene, inclusa la grazia" (tradotta in lingua italiana "indulto" dal testo originario in spagnolo), che si caratterizza per l'individualità, a differenza di altre misure di clemenza rivolte ad un gruppo di persone, senza che ne sia alterata la comune "efficacia estintiva dello ius puniendi" in tutti gli Stati.

E' altresì significativo rilevare che il Portogallo, che ha un istituto di clemenza simile all'indulto (cd. pardon parlamentare o generale), ha previsto nella legislazione sulla cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale (L. 31 agosto 1999, n. 144 e succ. modd., art. 101) che, in caso di trasferimento dell'esecuzione in Portogallo, l'amnistia, il "perdao generico" e la grazia possono essere concessi da entrambi gli Stati.

In definitiva, emerge chiaramente dall'indagine comparativistica la non perfetta sovrapponibilità degli istituti dell'amnistia e della grazia, coprendo le rispettive nozioni situazioni affatto eterogenee nei vari Stati, sicchè il mero dato testuale, che fa leva sull'omessa menzione dell'indulto nell'art. 12 della Convenzione, appare sprovvisto di reale incidenza ermeneutica per la soluzione della questione giuridica controversa.

La ricostruzione sistematica della reale portata della disciplina va piuttosto affidata ai più solidi criteri ermeneutici costituiti dalla "equivalenza giuridica degli istituti" e dalla "ratio" della disciplina dettata dalla Convenzione, nella prospettiva della razionalità e dell'organicità del sistema fondato sulla fonte sopranazionale e multilaterale e nel rispetto del metodo interpretativo desumibile dalle direttive della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati 6. - D'altra parte, la tesi contraria all'applicazione dell'indulto non è suffragata neppure dall'asserita natura eccezionale e di stretta interpretazione della disposizione di cui all'art. 12 della Convenzione, dal momento che il regime giuridico dell'esecuzione per i condannati trasferiti in Italia è disegnato alla stregua della regola fondamentale enunciata dall'art. 9, par. 3, secondo cui "l'esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione e questo Stato è l'unico competente a prendere ogni appropriata misura al riguardo" e in forza del quale le modalità di esecuzione della pena devono conformarsi ai principi fondamentali dell'ordinamento dello Stato italiano.

Che la disciplina degli artt. 9 e 10 della Convenzione faccia salvo l'ordinamento giuridico dello Stato di esecuzione, i suoi principi e le sue regole costituzionali è stato perentoriamente affermato dal Giudice delle leggi (Corte cost., sent. n. 73 del 2001), che, chiamato a pronunciarsi, nella vicenda del trasferimento dagli Stati Uniti della cittadina italiana B.S., sulla legittimità costituzionale della L. 25 luglio 1988, n. 334, art. 2, nella parte in cui, nel dare esecuzione alla Convenzione del 1983, consentirebbe di derogare, mediante la stipulazione degli accordi di trasferimento, all'applicazione di istituti a tutela di diritti fondamentali della persona, ha così ricostruito il sistema e lo spirito della Convenzione di Strasburgo: a) lo Stato di condanna può potestativamente prestare o negare il consenso al trasferimento del condannato, quando ritenga che il regime legale dell'esecuzione penale nel potenziale Paese di esecuzione, rispettivamente, sia o non sostanzialmente equivalente a quello previsto dal proprio ordinamento e, perchè possa prendere le proprie determinazioni con cognizione di causa, dev'essere informato circa i caratteri di tale regime nello Stato di esecuzione; b) lo Stato di esecuzione, a sua volta, è vincolato alla natura giuridica e alla durata della sanzione, qual'è prevista nell'ordinamento dello Stato di condanna, "ma non al di là del limite superato il quale si determinerebbe una rottura del proprio ordinamento", essendo possibile per evitare tale conseguenza, in caso di disomogeneità degli ordinamenti, operare l'adattamento che la salvaguardia dei principi fondamentali di quello interno, in particolare le sue regole costituzionali, rende strettamente necessario; c) è chiaramente esclusa, tuttavia, "l'eventualità che il soggetto trasferito sia sottoposto a un vero e proprio regime di esecuzione speciale e personale, concernente i diritti, oltre che i doveri, che lo riguardano come detenuto".

Va segnalato al riguardo che alla B. è stato applicato l'indulto ex L. n. 241 del 2006 dalla Corte d'appello di Roma, con ordinanza irrevocabile del 21/9/2006, cit., e che il Ministero della Giustizia, sulla richiesta di collaborazione avanzata in un caso analogo dalla Corte d'appello di Caltanissetta, aveva già espresso l'avviso, con nota del 4 dicembre 2001, che la mancata indicazione dell'indulto all'interno della norma dell'art. 12 della Convenzione si giustifica, secondo gli uffici ministeriali, con il fatto che non è previsto, nelle legislazioni dei Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo, un istituto che produca gli stessi effetti nè si rinviene, sul piano della terminologia francese e anglosassone, un'espressione equivalente, non potendosi escludere che nel termine "commutazione" vada ricompreso anche l'indulto, in quanto "appare logicamente innegabile che il più contenga il meno".

La tesi favorevole all'esclusione del carattere tassativo della disciplina posta dall'art. 12, dovuta alla semplificazione delle formule, necessariamente comprensive di istituti equivalenti in un contesto multilaterale, trova, d'altra parte, determinante sostegno nelle numerose, precise ed inequivoche indicazioni contenute del Rapporto esplicativo.

Ed invero: - nel par. 47, ribadito il criterio per cui l'esecuzione della condanna è regolata dalla legge dello Stato di esecuzione, viene precisato che il riferimento a tale legge deve essere interpretato in senso ampio, sì da ricomprendervi, "per esempio", la liberazione condizionale, misura pure non elencata nell'art. 12 della Convenzione; - il par. 59 avverte che nel riconoscimento al solo Stato di esecuzione della responsabilità dell'esecuzione della condanna è compresa, "per esempio", la facoltà di disporne la sospensione; - il par. 64, in riferimento all'art. 15 della Convenzione riguardante le informazioni sull'esecuzione della pena, contiene l'elencazione di varie cause che determinano la cessazione dell'esecuzione ("per esempio": espiazione della pena, remissione della stessa, liberazione condizionale, grazia, amnistia, commutazione), delle quali alcune non sono certo riconducibili ai singoli istituti menzionati dall'art. 12. 7. - A conclusione dei precedenti rilievi esegetici ritengono le Sezioni Unite che non sia rispondente alla corretta interpretazione dell'art. 12, nè tantomeno allo spirito e alle finalità della Convenzione di Strasburgo, la tesi che esclude l'applicazione dell'indulto in base alla pretesa natura eccezionale e tassativa della disciplina ivi contenuta.

Puntuali e decisivi argomenti logici e sistematici militano, per contro, a favore della tesi che - in contrasto con la soluzione accolta dalla pur costante giurisprudenza di legittimità - interpreta il citato art. 12 nel senso che gli Stati contraenti hanno fatto riferimento alla grazia, all'amnistia e alla commutazione della pena non con l'intento di limitare i benefici concedibili ai condannati, ma per designare qualsiasi, equivalente, istituto che, nell'ambito dei singoli ordinamenti, corrisponde all'esercizio di un potere di clemenza, sia in forma individuale che generalizzata, diretto alla sostanziale riduzione della pena.

E' stato lucidamente osservato, in proposito, che l'amnistia può essere rappresentata come un cerchio concentrico di dimensioni maggiori rispetto all'indulto, essendo quest'ultimo compreso nel primo, di guisa che, agli effetti della disciplina dell'art. 12, tracciare distinzioni tra i due istituti significa introdurre discriminazioni non ragionevoli, restando priva di qualsiasi, plausibile, base logica una soluzione che ammetta l'applicazione dell'amnistia (che estingue il reato e, di riflesso, la relativa pena) e, contemporaneamente, neghi l'applicazione dell'indulto, che ha effetti ben più contenuti, incidendo soltanto sulla pena.

Va infine rilevato che l'eventuale interpretazione di segno difforme potrebbe indurre ad un rilievo d'incostituzionalità della legge di ratifica della Convenzione, in quanto esporrebbe il cittadino italiano condannato all'estero che sia stato trasferito in Italia per l'esecuzione della condanna ad un trattamento (irragionevolmente) deteriore rispetto agli altri detenuti, italiani e stranieri, i quali potrebbero beneficiare nella fase esecutiva della generalità degli istituti demenziali e dei benefici previsti dalle rispettive legislazioni: e ciò nonostante lo scopo dichiarato del trasferimento del condannato che è quello di favorirne il reinserimento sociale nel Pese d'origine.

8. - Di talchè, aderendo alla soluzione ermeneutica prospettata sia dalla Sezione rimettente che dal Procuratore Generale, può enunciarsi il seguente principio di diritto: "E' applicabile l'indulto (di cui, nella specie, alla L. 31 luglio 2006, n. 241) alle persone condannate all'estero e trasferite in Italia per l'espiazione della pena con la procedura stabilita dalla Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 sul trasferimento della persone condannate, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 25 luglio 1988, n. 334".

E, poichè la ratio decidendi dell'ordinanza impugnata non risulta coerente col principio di diritto suindicato, il ricorso va accolto disponendosi, di conseguenza, l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.
P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame alla Corte d'appello di Milano.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2008.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2008

DELITTI CONTRO LA PERSONA – SOMMINISTRAZIONE DI FARMACI “OFF LABEL” – EFFETTI LESIVI - QUALIFICAZIONE

Corte Suprema di Cassazione



SENTENZA N. 37077 UD.24/06/2008 - DEPOSITO DEL 30/09/2008



DELITTI CONTRO LA PERSONA – SOMMINISTRAZIONE DI FARMACI “OFF LABEL” – EFFETTI LESIVI - QUALIFICAZIONE

La Corte ha per la prima volta affrontato il tema della rilevanza penale della prescrizione di farmaci “off label” (cioè in via sperimentale con finalità terapeutiche diverse da quelle riconosciute ai medesimi) ed ha in proposito affermato che le eventuali lesioni derivate al paziente dalla somministrazione sono ascrivibili alla responsabilità del medico che l’ha disposta solo a titolo di colpa, qualora questi non si sia attenuto al limite determinato dal rapporto rischio-beneficio nell’utilizzazione del farmaco, risultando invece irrilevante in proposito l’eventuale mancata acquisizione del consenso informato dello stesso paziente al trattamento.

Sentenza n. 37077 del 24 giugno 2008 - depositata il 30 settembre 2008

(Sezione Quarta Penale, Presidente C. Licari, Relatore P. Piccialli)
Documenti:

lunedì 6 ottobre 2008

E' scomparso il Prof. Leopoldo Elia

Leopoldo Elia

BIOGRAFIA

Leopoldo Elia, nato a Fano il 4 novembre 1925, si è laureto il 25 novembre del 1947 in giurisprudenza, nell'Università di Roma, col massimo dei voti e la lode discutendo - relatore Prof. Vincenzo Gueli- una tesi su "L'avvento del governo parlamentare in Francia". Funzionario dell'Ufficio Legislativo del Senato, è stato Segretario del Gruppo dei Parlamentari Italiani al Consiglio d'Europa ed all'Assemblea Comune CECA, e ha successivamente svolto funzioni direttive nel Segretariato dell'Assemblea, incaricato di formulare una costituzione per l'Europa. Libero docente di diritto costituzionale, all'unanimità, nel 1959, ha poi vinto il consenso alla cattedra nella stessa disciplina (primo temato) nel 1962. Ha insegnato, per incarico, istituzioni di diritto pubblico nella facoltà di economia e commercio dell'Università di Urbino (sede di Ancona) dal 1960 al 1963; e , come professore di ruolo, diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Ferrara nell'anno accademico 1962-1963, dell'Università di Torino dal 1963 al 1970 e dell'Università "La Sapienza" di Roma dal 1970 al 1997, tranne che nei periodi in cui è stato posto in aspettativa quale giudice costituzionale e per mandato parlamentare. Vice Presidente del Consiglio Superiore dell'Istituto Universitario Europeo di Firenze. Il 30 aprile del 1976 è stato eletto giudice della Corte Costituzionale dal Parlamento in seduta comune. Il 21 settembre del 1981 è stato eletto Presidente della Corte Costituzionale e tale è rimasto fino alla scadenza della carica di giudice costituzionale (7 maggio 1985). In questa circostanza i colleghi gli hanno conferito il titolo di Presidente emerito della Corte costituzionale. Nell'anno accademico 1985-86 ha ripreso l'insegnamento di diritto costituzionale nella Facoltà di giurisprudenza dell'Università "La Sapienza". Direttore della rivista "Giurisprudenza costituzionale" dal 1968 al 1976, ne ha riassunto la direzione nel 1986. E' stato altresì condirettore della sezione "Diritto pubblico" dell'Enciclopedia del diritto. Il 14 giugno del 1987 è stato eletto senatore, per il Collegio Roma VIII, per la X legislatura è stato Ministro per le riforme elettorali ed istituzionali nel Governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Il 27 marzo 1994 è stato eletto deputato, nelle liste del Partito Popolare italiano, nella circoscrizione di Lazio 2, per la XII legislatura. Il 21 aprile del 1996 è stato eletto senatore, per il collegio di Milano 5, per la XIII legislatura. In quest'ultima legislatura è stato presidente del gruppo senatoriale del PPI.







Contributi dell'autore all'Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche:

Trasmissioni


giovedì 2 ottobre 2008

Il Programma dell'ottavo weekend

XI CORSO NAZIONALE
DI
FORMAZIONE SPECIALISTICA DELL’AVVOCATO PENALISTA

Programma ottavo week-end


SABATO 11 ottobre

Ore 10.00 Il difensore e le impugnazioni dalla legge Pecorella a oggi
Dott. Giovanni CANZIO – Direttore del Massimario della Corte di Cassazione

Ore 12,00 “Dal Giusto Processo alla giusta pena”
Prof. Antonino PULVIRENTI – Docente di Diritto Processuale Penale Università LUMSA di Palermo

Ore 13.30 Conclusione dei lavori

Ore 15.00 prosecuzione di “Dal Giusto Processo alla giusta pena”
Prof. Antonino PULVIRENTI

Ore 17.00 Pausa

Ore 17.15 Verifica di fine corso

Ore 19.30 Conclusione dei lavori


DOMENICA 12 ottobre


Ore 9.00 Consegna BORSE DI STUDIO P.L.ROMANO
Gara conclusiva e Proclamazione vincitori del PREMIO “Ottavio Scifo”

Ore 10.45 Pausa

Ore 11.00 Verità e ritualità nel processo penale
Prof. Francesco CAVALLA – Professore di Filosofia del Diritto Università di. Padova

Ore 13.30 Conclusione dei lavori

Ore 14.30 Deontologia e retorica
Prof. Maurizio MANZIN – Professore Ordinario di Filosofia del Diritto – Università di Trento

Ore 16.15 Saluto e comunicazioni ai corsisti
Ore 16.30 Conclusione dei lavori