mercoledì 25 giugno 2008

SEZIONI UNITE:IMPUGNAZIONI-PERSONA OFFESA COSTITUITA PARTE CIVILE– SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE–RICORSO PER CASSAZIONE–FINI PENALI-CONSEGUENZE


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IMPUGNAZIONI- PERSONA OFFESA COSTITUITA PARTE CIVILE – SENTENZA DI NON LUOGO A PROCEDERE – RICORSO PER CASSAZIONE – FINI PENALI - CONSEGUENZE
Il ricorso per cassazione della persona offesa costituita parte civile contro la sentenza di non luogo a procedere, emessa all’esito dell’udienza preliminare, è proposto, dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006 all’art. 428 c.p.p., esclusivamente agli effetti penali, sicché la Corte, in caso di annullamento con rinvio, dispone la trasmissione degli atti al Tribunale cui appartiene il G.U.P. che ha emesso la sentenza impugnata.
Testo Completo:

Sentenza n. 25695 del 29 maggio 2008 - depositata il 24 giugno 2008

(Sezioni Unite Penali, Presidente G. Lattanzi, Relatore G. Canzio)

Documenti:

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Corte di Cassazione, Ufficio del massimario: Rapporti Giurisdizionali con Autorità Straniere - Mandato arresto europeo (M.A.E.) - Legge n. 69 del 2005











da www.cortedicassazione.it

RELAZIONE N. 28 DEL 11/03/2008


ORIENTAMENTO DI GIURISPRUDENZA
Rapporti Giurisdizionali con Autorità Straniere - Mandato arresto europeo (M.A.E.) - Legge n. 69 del 2005 (versione aggiornata)

Testo Completo: Relazione








lunedì 23 giugno 2008

Il programma del sesto weekend


XI CORSO NAZIONALE
DI
FORMAZIONE SPECIALISTICA DELL’AVVOCATO PENALISTA

Programma sesto week-end


SABATO 5 luglio

Ore 10.00
Difendere tra diritto e psicologia
Avv. Prof. Guglielmo GULOTTA – Foro di Milano

Ore 13.30 Conclusione dei lavori


Ore 15.00
Oltre ogni ragionevole dubbio
Avv. Prof. Luisella de CATALDO – Foro di Milano

Ore 17,15
Le tecniche di redazione dell’atto di appello
Prof. Avv. Gilberto LOZZI, Ordinario di Procedura Penale – Università “La Sapienza” di Roma

Ore 19.30 Conclusione dei lavori


DOMENICA 6 luglio

Ore 9.00
Il Difensore nel giudizio di appello
Avv. Lodovica GIORGI – Tesoriere UCPI

Ore 11,30
Diritto, dovere e orgoglio di Difesa (Difesa d’ufficio e Patrocinio a spese dello Stato)
Avv. Daniele GRASSO, Presidente C.O.F. Venezia
Avv. Nando PIAZZOLLA - Foro di Ancona

Ore 14.00 Pausa

Ore 14.30 Ripresa dei lavori


Ingiusta detenzione : intervento della Corte costituzionale

CONSULTA ONLINE

La Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, secondo quanto precisato in motivazione.

SENTENZA N. 219

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco BILE Presidente

- Giovanni Maria FLICK Giudice

- Francesco AMIRANTE “

- Ugo DE SIERVO “

- Paolo MADDALENA “

- Alfio FINOCCHIARO “

- Alfonso QUARANTA “

- Franco GALLO “

- Luigi MAZZELLA “

- Gaetano SILVESTRI “

- Sabino CASSESE “

- Maria Rita SAULLE “

- Giuseppe TESAURO “

- Paolo Maria NAPOLITANO “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 314 del codice di procedura penale promossi con ordinanze del 19 luglio 2006 dalla Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, sul ricorso proposto da P. A. e del 30 marzo 2007 dalla Corte d’appello di Trieste sull’istanza proposta da B. A. V. iscritte al n. 558 del registro ordinanze 2006 e al n. 753 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2006 e n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza in data 19 luglio 2006, la Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale in relazione agli artt. 2, 3, 13 (quest’ultimo invocato solo nella parte motiva dell’ordinanza di rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione, «nella parte in cui non è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta».

Premette la Corte di procedere in relazione ad un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva accolto solo in parte la richiesta presentata dall’istante ai sensi dell’art. 314 cod. proc. pen. per ottenere la liquidazione di una somma a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione in carcere complessivamente subita dal 23 gennaio 1986 al 22 giugno 1989. La Corte territoriale, infatti, aveva condannato il Ministero dell’economia al pagamento dell’indennità soltanto in relazione alla privazione della libertà subita dal 26 gennaio 1988 al 22 giugno 1989.

Così la Cassazione riassume i fatti a base della decisione impugnata.

Il 23 gennaio 1986 l’imputato era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere per le imputazioni di associazione per delinquere di stampo mafioso, di detenzione e porto d’armi e, successivamente, di tentato omicidio.

Il 22 gennaio 1988 erano scaduti i termini massimi di custodia cautelare per i reati concernenti l’associazione mafiosa e le armi; la custodia era, tuttavia, mantenuta in quanto l’imputato era stato condannato alla pena di quattordici anni di reclusione per i reati di tentato omicidio, nonché di detenzione e porto d’armi. Con sentenza del 23 giugno 1989, la Corte d’assise d’appello aveva assolto l’imputato dal reato di tentato omicidio per insufficienza di prove, mentre il processo proseguiva in relazione agli altri reati. In data 17 giugno 1999 l’imputato veniva assolto dal reato associativo e condannato a dieci mesi di reclusione per i reati concernenti le armi. Infine, in data 7 maggio 2001, la Corte territoriale pronunciava sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al reato di porto e detenzione di armi.

La Corte d’appello, pronunciando sull’istanza di riparazione per ingiusta detenzione, riteneva che l’indennizzo dovesse essere riconosciuto solo per il periodo, compreso tra il 26 gennaio 1988 e il 22 giugno 1989, riguardante la custodia cautelare relativa al reato di tentato omicidio, mentre per il periodo dal 23 gennaio 1986 al 22 gennaio 1988, l’istanza doveva essere respinta, sia in quanto la custodia cautelare era legittimata dalla pluralità di imputazioni, sia in quanto la declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati concernenti le armi precludeva il riconoscimento del diritto alla riparazione. Ciò in quanto tale diritto è configurato dall’art. 314 cod. proc. pen. solo in caso di proscioglimento nel merito.

Avverso tale ordinanza P.A. ha proposto ricorso per Cassazione.

Le sezioni unite, cui il ricorso è stato rimesso dalla quarta sezione (con ordinanza n. 1920 del 14 novembre 2005), chiariscono innanzitutto di esaminare la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione limitatamente al periodo di custodia subita dal 23 gennaio 1986 al 22 gennaio 1988, data quest’ultima in cui sono scaduti i termini massimi della misura cautelare relativamente ai delitti di associazione mafiosa, di detenzione e porto illegale d’armi, reati per i quali i limiti massimi di durata della custodia in carcere coincidono.

Ciò precisato, la Cassazione afferma che il tema di indagine sul quale essa è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se sia o meno «configurabile il diritto alla riparazione nel caso in cui l’imputato, sottoposto a detenzione per più titoli cautelari di pari durata massima, venga assolto da un reato con una delle formule indicate nel primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen. e venga, invece, prosciolto dall’altro reato perché estinto per prescrizione».

La giurisprudenza di legittimità, nel caso di processo cumulativo con più imputazioni, è orientata a ritenere che, poiché il diritto all’equa riparazione spetta solo in quanto l’interessato sia stato prosciolto con formula liberatoria di merito, ai fini del riconoscimento di tale diritto è necessario che tale presupposto ricorra con riguardo a tutti gli addebiti formulati. Ciò deriverebbe dal fatto che il periodo di detenzione cautelare è unico e inscindibile per tutti i titoli custodiali di modo che, se essi hanno un identico limite massimo di durata, la mancanza di proscioglimento nel merito anche per uno solo dei reati farebbe sì che l’intera detenzione cautelare debba essere riferita a quest’ultimo, a prescindere dalla misura della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna.

Di conseguenza, nel caso di provvedimento coercitivo fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di esse, impedirebbe il sorgere del diritto alla riparazione.

In senso diverso si è, tuttavia, pronunciata la suprema Corte in due decisioni della quarta sezione, le quali si caratterizzano per il fatto di aver riconosciuto la riparazione a favore di coimputati nello stesso processo dell’imputato che ora agisce per la riparazione, i quali, come quest’ultimo, erano stati assolti dal reato associativo e, dopo essere stati condannati per i reati relativi alle armi, erano stati prosciolti per prescrizione.

Con la prima sentenza (6 luglio 2005, n. 40094), la Corte ha osservato che «il periodo di custodia cautelare riferibile ai reati concernenti le armi non poteva in nessun caso superare il limite di dieci mesi corrispondente all’entità della reclusione inflitta con la condanna pronunciata nel giudizio di primo grado: di talché, poiché contro tale decisione il p.m. non aveva proposto appello, al reato successivamente dichiarato prescritto era attribuibile un periodo di detenzione cautelare non superiore a dieci mesi e la maggiore durata, della custodia in carcere doveva essere riferita all’imputazione per la quale era intervenuta assoluzione nel merito».

Nella seconda decisione (8 luglio 2005, n. 36898) si è affermato che «qualora risulti per il particolare svolgersi del processo, che il periodo, il tempo, delle limitazioni della libertà non coincide per tutti i titoli-reati, nel senso che possono distinguersi, con estrema precisione, il periodo di limitazione della libertà sofferta per il titolo-reato per il quale si è avuto il proscioglimento per prescrizione e il periodo di limitazione della libertà – oltre e, nel caso di specie, ben oltre, quella soglia – sofferta soltanto per il titolo-reato per il quale v'è stato il proscioglimento nel merito, non v'è nessuna ragione per negare l’equa riparazione per questo secondo periodo di limitazione della libertà».

Alla base di tali pronunce vi sarebbe la tesi secondo cui al titolo cautelare venuto meno a seguito di proscioglimento per prescrizione «non può essere riferito un periodo corrispondente alla durata massima prevista dalla legge processuale, ma esclusivamente il periodo di detenzione cautelare pari all’entità della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna».

Le sezioni unite affermano di non condividere tali conclusioni dal momento che esse porterebbero a conseguenze che esorbitano dalla effettiva sfera precettiva dell’art. 314 cod. proc. pen.

Tale disposizione, al comma 1, individua nella sentenza assolutoria nel merito il presupposto per il sorgere del diritto all’equa riparazione. Al comma 4 stabilisce poi che il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena, secondo la regola della fungibilità ex art. 657 cod. proc. pen., ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo.

Dalla lettura coordinata di tali disposizioni emergerebbe «l’intenzione del legislatore di escludere integralmente la riparazione per ingiusta detenzione in tutti i casi di proscioglimento non di merito e, a maggior ragione, di condanna, prescindendo totalmente dall’effettiva misura della pena applicabile o in concerto applicata, quand’anche questa risulti largamente inferiore al periodo di custodia cautelare effettivamente subita».

Tuttavia, le sezioni unite dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. proprio «nella parte in cui esclude il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta, precludendo di riflesso – nell’ipotesi di più titoli cautelari con pari limiti di durata massima – la liquidazione dell’indennità in ordine all’imputazione per la quale è intervenuta assoluzione nel merito, anche se l’effettivo periodo di custodia cautelare risulti superiore alla misura della pena inflitta (o che sarebbe stata inflitta) per l’altra imputazione se il reato non fosse stato dichiarato prescritto».

L’univoco tenore letterale della disposizione censurata precluderebbe la possibilità di interpretare la medesima in senso conforme a Costituzione. Nel medesimo senso deporrebbe la scelta di politica legislativa alla base dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. il quale postula il proscioglimento nel merito per tutte le imputazioni.

Tale disposizione, ad avviso della Suprema Corte, contrasterebbe, innanzitutto, con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto non darebbe fedele attuazione della direttiva contenuta nell’art. 2, comma 1, n. 100 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale). Infatti, a fronte dell’ampiezza del principio dettato dalla delega, nel quale non vi è alcuna limitazione in relazione al titolo della detenzione o alle ragioni dell’ingiustizia, il legislatore delegato avrebbe indiscriminatamente escluso dalla riparazione le ipotesi in cui la pena effettivamente inflitta per uno dei reati risulti inferiore alla durata della detenzione subita «pur apparendo quest’ultima, per una parte, ‘ex post’ oggettivamente ingiusta».

Inoltre, il legislatore delegato avrebbe disatteso la direttiva contenuta nell’art. 2, comma 1, della citata legge che impone di adeguarsi alle norme «delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale». Infatti, negando la riparazione del pregiudizio derivato dalla privazione della libertà personale per un periodo superiore alla misura della pena inflitta, si sarebbe discostato dall’art. 5, paragrafo 5, della Convenzione europea e dall’art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici che prevedono il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale senza alcuna limitazione.

Il legislatore delegato si sarebbe, altresì, discostato dall’art. 5, paragrafo 3, della suddetta Convenzione, il quale riconosce il diritto ad ogni persona arrestata o detenuta ad essere giudicata in tempo congruo. La disposizione censurata, infatti, non riconoscerebbe il diritto alla riparazione pur quando il soggetto si trovi a subire una detenzione preventiva di lunga durata, superiore alla pena poi stabilita in quanto giudicato a notevole distanza dal fatto commesso.

L’art. 314 cod. proc. pen. violerebbe, altresì, gli artt. 2, 13 e 24, quarto comma, Cost.

Alla stregua di tali disposizioni costituzionali, dalle quali emerge il valore primario ed essenziale del principio di solidarietà e della libertà personale, la nozione di errore giudiziario – di cui l’art. 24 Cost. prevede la riparazione – dovrebbe comprendere «tutte le ipotesi di custodia cautelare che, essendo risultate ‘ex post’ obiettivamente ingiuste, rivelano l’erroneità della misura restrittiva adottata in quanto lesiva del bene della libertà personale». L’esclusione del diritto alla riparazione nell’ipotesi in cui il sacrificio della libertà personale abbia superato la misura della pena inflitta – tanto più ove tale divario tra custodia cautelare ed entità della pena dipenda da tempi non ragionevoli di durata del processo – contrasterebbe con i valori tutelati dalla Costituzione.

Infine, sarebbe violato l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto le limitazioni al diritto alla riparazione, alla quale la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto fondamento solidaristico, sarebbero inadeguate rispetto all’obiettivo di assicurare un’equa riparazione a restrizioni della libertà personale obiettivamente ingiuste.

2. – Anche la Corte d’appello di Trieste, con ordinanza del 30 marzo 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione per la durata della custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta.

Il rimettente riferisce che l’imputato era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, dall’8 gennaio 1999 all’8 settembre 2000, per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo, ricettazione, detenzione e porto di arma comune clandestina, nonché tentato omicidio premeditato. La sentenza di primo grado, dopo aver derubricato tale ultimo reato in quello di lesioni personali volontarie pluriaggravate, condannava l’imputato alla pena di anni uno, mesi otto di reclusione e lire 3.000.000 di multa. La Corte d’appello, con sentenza n. 503 del 2004, del 17 giugno 2004, in parziale riforma della predetta decisione, dopo aver ulteriormente derubricato il reato di lesioni volontarie in quello di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), dichiarava non doversi procedere in ordine a tale reato per difetto di querela e rideterminava la pena, per gli altri reati, in anni uno, mesi due, giorni venti di reclusione e euro 1.600,00 di multa, concedendo altresì il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Il rimettente, ritenuto di non poter accogliere l’istanza di riparazione per l’intero periodo di custodia cautelare, essendo essa riferita a tutti i reati contestati (e non solo a quella di tentato omicidio), rileva che nella fattispecie al suo esame la detenzione cautelare si è protratta per anni uno e mesi otto e cioè per un lasso di tempo superiore alla pena irrogata in secondo grado a seguito della dichiarazione di improcedibilità per difetto di querela in relazione al reato di cui all’art. 590 cod. pen.

L’art. 314 cod. proc. pen., «come costantemente interpretato dalla Corte di cassazione», non consentirebbe, tuttavia, di ritenere ingiusta la detenzione subita e dunque di riconoscere il diritto alla riparazione.

Ciò posto, il giudice a quo dà atto che la Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della citata disposizione, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost. nonché in relazione agli artt. 2, 3 e 24, quarto comma, Cost. Tale questione si attaglierebbe anche al caso al suo esame nel quale l’interessato ha sofferto un periodo di detenzione cautelare superiore alla pena detentiva inflittagli.

Il rimettente ritiene che la suddetta questione di legittimità costituzionale sia rilevante anche nel procedimento al suo esame e sia non manifestamente infondata «per le ragioni e nei termini prospettati dall’ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione sopra citata, cui deve farsi integrale richiamo».

Considerato in diritto

1. – Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non [vi] è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta», in riferimento agli artt. 2, 3, 13 (quest’ultimo evocato solo nella parte motiva dell’ordinanza di rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione.

Analogamente, la Corte di appello di Trieste censura tale disposizione, nel medesimo senso, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione.

2. – I giudizi meritano di essere riuniti, in ragione dell’identità dell’oggetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

3. – L’ordinanza della Corte di appello di Trieste omette di motivare in ordine al requisito della non manifesta infondatezza della questione, limitandosi a dare conto della precedente ordinanza di rinvio delle Sezioni unite, e ad indicare taluni dei parametri che queste ultime hanno posto a fondamento della censura di legittimità costituzionale.

A ciò non si accompagna alcuna autonoma argomentazione in ordine alle ragioni per le quali dall’esame di tali parametri discenderebbe il dubbio di costituzionalità: in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte, la questione così sollevata va dichiarata manifestamente inammissibile (si vedano, ex plurimis, le ordinanze n. 81 e n. 14 del 2008).

4. – La fattispecie sulla quale le Sezioni unite si trovano a decidere nasce dall’istanza proposta, ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione, da un soggetto che è stato sottoposto a custodia cautelare in carcere, in forza di più titoli relativi a reati per cui la legge prevede una uguale durata massima della misura restrittiva.

Il rimettente riferisce che l’imputato è stato prosciolto con sentenza irrevocabile, ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., dal più grave reato contestatogli, e condannato in primo grado alla pena di dieci mesi di reclusione, quanto all’ulteriore imputazione: in séguito, per quest’ultima, la corte di appello, sull’impugnazione proposta dal solo imputato, ha pronunciato sentenza di non doversi procedere, stante l’estinzione del reato per sopraggiunta prescrizione.

L’istante muove dalla premessa, secondo cui il mancato appello da parte del pubblico ministero in relazione alla pena inflitta in primo grado rende certo che essa, quand’anche il giudizio di appello si fosse concluso con una pronuncia sul merito dell’imputazione, non avrebbe potuto superare i dieci mesi di reclusione. Ne seguirebbe che al titolo di custodia cautelare, concernente il reato per il quale non è intervenuta sentenza di assoluzione nel merito, potrebbe venire riferito un periodo detentivo pari a dieci mesi, mentre la residua e più lunga fase detentiva sarebbe riconducibile esclusivamente all’imputazione per la quale, invece, vi è stato proscioglimento nel merito: essa, pertanto, dovrebbe venire indennizzata, in forza del primo comma dell’art. 314 cod. proc. pen.

Il giudizio a quo muove, pertanto, da una particolare ipotesi di convergenza di titoli di custodia cautelare in carcere: ciò nonostante, l’intervento sollecitato a questa Corte ha per oggetto, in termini più generali, la legittimità costituzionale della disciplina relativa alla riparazione per l’ingiusta detenzione, nella parte in cui essa si applica alle sole ipotesi di assoluzione nel merito, e non anche al caso in cui il reo, non assolto nel merito, abbia scontato un periodo di custodia cautelare.

È evidente che, in tal modo, il perimetro del giudizio costituzionale si colloca entro un’area che si rivela di carattere indennitario: la riparazione spetta infatti a chi sia prosciolto irrevocabilmente nel merito, quand’anche sussistessero in origine le condizioni richieste ai fini della misura cautelare.

Altro profilo, che esula dall’oggetto del presente giudizio, presentano viceversa i casi in cui alcune condizioni di applicabilità non fossero presenti, quando la custodia cautelare è stata disposta, ovvero è stata mantenuta in essere.

Il rimettente ritiene che l’accoglimento dell’istanza su cui deve decidere sia irrimediabilmente precluso dal divieto, ricavabile in forza della sola lettura dell’art. 314, comma 1, cod. proc. pen., di concedere riparazione indennitaria quando il proscioglimento non abbia il carattere assolutorio nel merito. Difatti, tale divieto osterebbe all’operazione interpretativa, pure sperimentata da talune precedenti decisioni della Corte di cassazione, a sezione semplice, di ascrivere al titolo detentivo per il quale è intervenuta condanna il solo periodo pari alla misura della pena inflitta, ritenendo invece indennizzabile il periodo ulteriore, in quanto non più giustificato dal titolo a cui è seguito, invece, il proscioglimento nel merito. Secondo le Sezioni unite, solo muovendo dal postulato della riparabilità della custodia cautelare che abbia ecceduto la pena inflitta (allo stato preclusa dalla lettera dell’art. 314 cod. proc. pen.) si potrebbe contenere entro l’invalicabile limite di siffatta pena la fase custodiale non indennizzabile, concedendo viceversa la riparazione per il periodo eccedente.

In caso contrario, l’intero termine, pari alla durata massima della custodia cautelare, verrebbe giustificato alla luce del titolo in relazione al quale non vi è stata assoluzione nel merito, impedendo la riparabilità del periodo che eccede la pena concretamente commisurata dal giudice, e conseguentemente precluderebbe l’apprezzamento di tale ultimo periodo in relazione al titolo su cui si è formato il giudicato di assoluzione.

Il passaggio da una fattispecie peculiare di convergenza di titoli di custodia alla richiesta di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. nella più ampia misura sopra esposta non comporta l’irrilevanza della questione. Non spetta infatti a questa Corte sindacare analiticamente i passaggi logico-giuridici che il giudice a quo ha compiuto per approdare alla conclusione appena riassunta: è sufficiente porre in rilievo, invero, che essi sono adeguatamente motivati (sentenze n. 39 del 2008 e n. 50 del 2007). Attraverso siffatta motivazione, il rimettente è giunto a ritenere, tramite un apprezzamento non privo di plausibilità, che l’istanza oggetto del giudizio principale possa essere accolta, solo a seguito dell’introduzione nel testo dell’art. 314 cod. proc. pen. di una nuova ipotesi di riparazione dell’ingiusta detenzione, per i casi in cui la custodia cautelare subita ecceda la pena inflitta tramite la condanna, e che tale introduzione sia costituzionalmente imposta, alla luce dei parametri evocati.

Entro questi termini, è palese che la lettera stessa dell’art. 314 cod. proc. pen. si oppone ad un’esegesi di tale disposizione condotta secondo i canoni dell’interpretazione costituzionalmente conforme: tale circostanza segna il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale.

L’ammissibilità di quest’ultimo, per non avere il rimettente esplorato la via dell’interpretazione conforme, non è infatti pregiudicata dalla presenza di pronunce giudiziali che abbiano sì conseguito l’adeguamento della norma alla Costituzione, ma per il tramite di interpretazioni eccentriche e palesemente contrarie al dettato letterale della legge.

Le ragioni che hanno consentito di definire in tali termini l’oggetto del presente processo incidentale sono le medesime che, in direzione contraria, si oppongono ad un allargamento dei confini del giudizio costituzionale oltre il limite segnato dall’ordinanza di rimessione: questa Corte è oggi chiamata a decidere esclusivamente se sia costituzionalmente ammissibile che, in caso di detenzione cautelare sofferta, quest’ultima non fosse causa di riparazione ove l’interessato non sia stato prosciolto nel merito.

A tale ipotesi il giudice a quo riconduce il caso, oggetto del processo principale, in cui, nonostante non vi sia stata condanna definitiva in ragione della sopraggiunta prescrizione del reato, tuttavia si sia formata una preclusione processuale a riesaminare la pena inflitta in primo grado, poiché non appellata dal pubblico ministero. Si tratta, anche per tale verso, di una valutazione che, in quanto non implausibile, compete al solo rimettente, e che non incide sui requisiti di ammissibilità del presente giudizio.

5. – In primo luogo, il giudice a quo dubita che l’art. 314 cod. proc. pen. sia conforme agli artt. 76 e 77 della Costituzione, posto che, restringendo la riparazione di carattere indennitario alle sole ipotesi di assoluzione nel merito, esso avrebbe violato l’art. 2, comma 1, numero 100, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), il quale prevede che il legislatore delegato disciplini la «riparazione dell’ingiusta detenzione e dell’errore giudiziario».

A sostegno di tale dubbio, il rimettente rileva che questa stessa Corte, pronunciandosi sull’art. 314 cod. proc. pen. ha evidenziato che la legge delega «enuncia la direttiva della riparazione dell’ingiusta detenzione, senza porre alcuna limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le ‘ragioni’ dell’ingiustizia» (sentenze n. 231 e n. 413 del 2004).

Tuttavia, il giudice a quo omette di considerare che tali pronunce sono state rese dalla Corte al fine di avallare l’estensione in via interpretativa del campo di applicabilità dell’art. 314 cod. proc. pen. ad ipotesi (rispettivamente, l’arresto provvisorio e l’applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda di Stato estero che si accerti carente di giurisdizione; l’archiviazione per morte del reo, quando i coimputati risultano prosciolti nel merito, perché il fatto non sussiste) che, secondo i giudici a quibus, non vi erano ricomprese. Ipotesi, è necessario aggiungere, che sono parse corrispondenti alla ratio cui si ispira la disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, ed ai casi ivi espressamente previsti, sicché, proprio nel raffronto con tali ultimi casi, si è appalesata priva di rilievo la circostanza che il titolo formale, ovvero la “ragione” che avevano condotto alla detenzione, non fossero immediatamente corrispondenti alla fattispecie astratta della norma censurata.

Proprio l’irrilevanza del tratto formale, a fronte della identità di ragione giustificatrice, hanno in tali casi consentito, ed anzi reso necessario, il ricorso ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce della previsione recata dalla legge delega.

Tutt’altra questione sarebbe, invece, ritenere che l’«ingiustizia» della detenzione debba, per vincolo così imposto dal legislatore delegante, venire affidata al mero apprezzamento dell’interprete, senza che il legislatore delegato possa realizzare quel «naturale rapporto di riempimento che lega la norma delegata a quella delegante», in assenza del quale si avrebbe uno «snaturamento del ben diverso regime che la Costituzione ha inteso prefigurare», quanto a simile rapporto (sentenze n. 308 del 2002 e n. 4 del 1992).

In quest’ottica, non vi sono ragioni per ritenere che la legge delega abbia voluto introdurre direttamente una clausola generale di riparabilità della detenzione “ingiusta”, che sia affidata al filtro dell’interprete, anziché a quello “fisiologico” (sentenza n. 198 del 1988) della norma delegata. Anzi, poiché all’epoca della emanazione della delega era ancora dibattuta la questione degli àmbiti entro cui dovesse qualificarsi come ingiusta la detenzione e dunque riconoscersi il diritto alla riparazione ai sensi dell’art. 24 della Costituzione, deve ritenersi che con l’ampiezza dell’espressione utilizzata il legislatore delegante abbia voluto rimettere al legislatore delegato l’individuazione e la specificazione di tali ipotesi, sia pure nel rispetto dei princípi e dei criteri direttivi enucleabili dalla delega.

Piuttosto, è vero quanto sottolineato dal giudice a quo circa la necessità, più volte ribadita da questa Corte (sentenze n. 251 e n. 109 del 1999; n. 310 del 1996; n. 373 del 1992 e n. 344 del 1991), che le norme del codice di procedura penale si adeguino alle norme interposte ai fini del giudizio di costituzionalità, costituite dalle «convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale» (art. 2, comma 1, della legge n. 81 del 1987); da queste, infatti, ben possono essere tratti princìpi e criteri direttivi idonei ad indirizzare, di volta in volta, la pur presente, ma limitata discrezionalità (sentenze n. 224 del 1990; n. 156 del 1987; n. 56 del 1971 e ordinanza n. 228 del 2005) del legislatore delegato.

In ordine alla disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, il rimettente richiama, in particolare, l’art. 5, paragrafo 5, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e l’art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881.

Tuttavia, tali disposizioni non valgono a sorreggere le conclusioni cui giungono le Sezioni unite.

Ai sensi dell’art. 9, paragrafo 5, del Patto, «chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo». In forza di tale dizione letterale, nonché dell’ulteriore previsione recata dall’art. 3 della legge n. 881 del 1977, secondo cui è illegale l’arresto o la detenzione «arbitrariamente» disposte (art. 9, paragrafo 1), in difetto dei «motivi» e in contrasto con la «procedura» previsti dalla legge, appare chiaro che tale fonte internazionale pattizia ha per oggetto le sole ipotesi, riconducibili al comma 2 dell’art. 314 cod. proc. pen., nelle quali, a prescindere dal successivo esito del giudizio di merito, difettassero in origine le condizioni legali per applicare o mantenere in vigore una misura custodiale.

Per il medesimo motivo, privo di conferenza è il rinvio all’art. 5, paragrafo 5, della CEDU, secondo il quale «ogni persona vittima di arresto o di detenzione eseguiti in violazione alle disposizioni di questo articolo ha diritto ad un indennizzo». Il diritto all’indennizzo consegue ogni qual volta taluno sia stato privato della libertà personale al di fuori dei casi indicati dalla legge nazionale e previsti dal paragrafo 1 dell’art. 5, ovvero in violazione delle modalità e dei tempi disciplinati dai successivi paragrafi 2, 3 e 4.

In particolare, il paragrafo 1, lettera c) dell’art 5 consente la detenzione, in base alla legge nazionale, di chi sia stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente; all’interpretazione di questa disposizione da parte della Corte EDU occorre riferirsi secondo quanto chiarito da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.

Quest’ultima ha più volte affermato che l’art. 5 esige che la privazione della libertà sia conforme al fine di proteggere la persona da arbìtri (sentenza relativa all’affaire n. 26629/95 Witold Litwa c. Polonia e sentenza relativa all’affaire n. 24952/94 N.C. c. Italia), ovvero di impedire, in armonia con il nucleo costitutivo dell’habeas corpus, che la libertà personale possa venire offesa in difetto di un provvedimento adottato da un tribunale indipendente, e al di fuori dei casi previsti dalla legge. Quando, pertanto, la detenzione è in esecuzione di una decisione giudiziaria, essa è regolare, in via di principio (Grande Camera, sentenza Benham c. Regno Unito, relativa all’affaire 7/1995/513/597).

È ben vero che la Corte EDU invita i giudici nazionali, riservando a sé stessa tale compito in seconda battuta, a verificare altresì che la privazione della libertà sia necessaria, tenendo conto delle circostanze (sentenza relativa all’affaire n. 26629/95 N.C. c. Italia), ma tale scrutinio resta comunque vincolato alla ricerca di eventuali elementi di arbitrio (sentenza relativa all’affaire n. 42644/02 Picaro c. Italia) che contagino la fattispecie concreta e la inquadrino nella luce della indebita restrizione della libertà: in nessun modo l’art. 5, secondo la sua portata letterale e secondo l’interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, si spinge fino a disciplinare l’ipotesi, propria del presente giudizio incidentale, in cui taluno sia stato soggetto, in conformità alla legge nazionale, a custodia cautelare e sia stato condannato a pena che risulti inferiore al periodo restrittivo a tale titolo imputabile. In tal caso, infatti, non vi è questione circa la legittimità della custodia cautelare, né si tratta di riparare all’arbitrio perpetrato dai pubblici poteri: si assume, viceversa, che la detenzione fosse fondata su un titolo conforme alla legge, e si pone all’attenzione della Corte tutt’altro genere di quesito.

Le Sezioni unite inoltre rilevano, sempre secondo la visuale della censura per violazione della norma interposta richiamata nella legge delega, che il paragrafo 3 dell’art. 5 della CEDU impone di giudicare chi sia posto in stato di custodia cautelare «entro un termine ragionevole», ovvero di porlo in libertà, se ciò non sia possibile. Vi sarebbe, pertanto, una «stretta connessione» tra la questione della legittima durata della custodia cautelare e quella dei ragionevoli tempi di definizione del processo, che si riverbererebbe fino all’incostituzionalità dell’art. 314 cod. proc. pen., nei termini sopra indicati.

La Corte osserva a tale proposito che il diritto all’indennizzo previsto dall’art. 5 della CEDU a favore di chi, nelle condizioni sopra ricordate, non sia giudicato entro un tempo ragionevole, spetta per l’eccessiva durata della custodia cautelare, imposta dai tempi del procedimento penale, ma non ha alcun necessario legame normativo con la distinta questione, posta nell’attuale giudizio, concernente il rapporto tra tale durata e la pena eventualmente inflitta: esso in astratto potrebbe denunciare un carattere squilibrato, anche in caso di celere, o comunque temporalmente tollerabile, definizione del processo penale.

La protrazione di quest’ultimo per lungo arco di tempo senza dubbio rende meno improbabile l’ipotesi che il reo sia condannato ad una pena detentiva inferiore alla custodia subita a titolo cautelare e mantenuta in essere nel corso del processo, sia pure entro gli invalicabili limiti di legge. Tuttavia, tale circostanza costituisce con ogni evidenza un inconveniente fattuale, che non discende necessariamente dal portato normativo della disposizione impugnata e che pertanto sfugge, entro questi termini, al controllo di costituzionalità (sentenza n. 375 del 2006).

La censura fondata sugli artt. 76 e 77 della Costituzione è per tali ragioni infondata.

6. – Resta da esaminare la censura di incostituzionalità dell’art. 314 cod. proc. pen. formulata dalle Sezioni unite con riferimento agli artt. 2, 3, 13 (quest’ultimo, indicato nella sola parte motiva dell’ordinanza di rinvio) e 24, quarto comma, della Costituzione.

Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla disciplina concernente la riparazione dell’errore giudiziario con la sentenza n. 1 del 1969, che risale ad epoca ben precedente alla formulazione dell’odierna norma in esame, e che ebbe infatti ad oggetto l’allora vigente art. 571 cod. proc. pen.

In quell’occasione, la Corte, chiamata dal giudice a quo ad estendere l’àmbito applicativo di tale disciplina in forza dell’art. 24, ultimo comma, della Costituzione, dovette arrestarsi a fronte della constatazione per cui il difetto di una compiuta legislazione, tesa a regolare gli aspetti sostanziali e procedurali dell’istituto della riparazione, non avrebbe potuto essere supplito da una pronuncia costituzionale, giacché «una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale che si fondasse sulla sola parzialità della disciplina, rischierebbe intanto di condurre ad un regresso della situazione normativa, riaprendo un vuoto che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione».

È agevolmente verificabile che tale condizione ostativa è ormai venuta meno, proprio a sèguito dell’introduzione nel corpo del nuovo codice di procedura penale dell’art. 314. Tramite tale disposizione, il legislatore ha mostrato la volontà di attrarre nell’area della riparazione ipotesi che esulano dalla erroneità del provvedimento giurisdizionale posto a base della detenzione, per abbracciare casi recanti una «oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ex post» (sentenze n. 413, n. 231 e n. 230 del 2004; n. 446 del 1997). Nel contempo, è stato analiticamente configurato un istituto, che si presta, quanto alle modalità applicative, ad essere esteso ad ogni ulteriore ipotesi che si rivelasse costituzionalmente imposta.

La sentenza n. 1 del 1969 appare quindi superata per questa parte dall’evoluzione dell’ordinamento giuridico, come già evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 310 del 1996, la quale ha riconosciuto che «è proprio l’art. 314 c.p.p. a porsi come disciplina concretizzatrice della disposizione di principio contenuta nell’art. 24» della Costituzione.

Essa permane viceversa integra e vitale, quanto all’affermazione, che ne costituiva il fondamento, per la quale «l’ultimo comma dell’art. 24 della Costituzione enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, che va riguardato – sotto il profilo giuridico – quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), assunto in Costituzione tra quelli che stanno a fondamento dell’intero ordinamento repubblicano, e specificantesi a sua volta nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà, ed anzitutto e con più spiccata accentuazione a quelli tra essi che sono immediata e diretta espressione della personalità umana».

Nell’attuale giudizio, tale principio merita di essere apprezzato non solo con riguardo all’art. 24, ultimo comma, della Costituzione, ma anche alla luce dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, ovvero degli artt. 2, 3 e 13 della Costituzione.

«Il fine ultimo dell’organizzazione sociale» è, infatti, «lo sviluppo di ogni persona umana» (sentenza n. 167 del 1999), il cui valore si pone al centro dell’ordinamento costituzionale: compete al legislatore approntare il più efficace dei sistemi di tutela, affinché esso non venga compromesso.

L’inviolabilità di un diritto, ed in questo caso della libertà personale, non è infatti vuota proclamazione della Carta, ma esprime, al contrario, una «preminente forza dei principi costituzionali», tale da opporsi «ad una ricostruzione del sistema che si tradurrebbe in una lesione di essi» (sentenza n. 232 del 1998). È, in altri termini, necessario che sia il legislatore, sia l’interprete si orientino, ciascuno nell’àmbito delle rispettive competenze, verso il riconoscimento del più efficace degli strumenti di tutela a disposizione per prevenire e, se ciò non sia possibile, per fornire ristoro alla lesione di tale diritto inviolabile. La Carta costituzionale, infatti, «impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela che possano pregiudicare l’attuazione» del «nucleo irriducibile» dei diritti inviolabili (sentenze n. 252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998).

Questa Corte è ben consapevole che una riparazione di carattere patrimoniale, venendo a monetizzare il sacrificio di una libertà inviolabile, ne costituisce un pallido rimedio, cui debbono sempre venir preferiti strumenti capaci di evitare o limitare il danno, ovvero di reintegrarlo in forma specifica.

E tuttavia tale argomento non può valere certamente ad escludere la via della tutela risarcitoria o indennitaria quando, di fatto, essa sia l’unica praticabile nell’ordinamento: si è già ritenuto, a tale proposito, che l’azione risarcitoria costituisce tecnica di tutela della situazione giuridica lesa, alla natura della quale si conforma (sentenza n. 204 del 2004).

Ugualmente, questa Corte ha anche di recente sottolineato l’esigenza di garantire l’integrale riparazione del danno subito nei valori propri della persona, anche in riferimento all’art. 2 della Costituzione (sentenza n. 233 del 2003). Ed anzi, si è a maggior ragione affermata l’incostituzionalità del difetto di tutela risarcitoria, in seno a discipline costruite per tutelare i diritti inviolabili della persona umana, ove esse siano «estrinsecazione di un principio solidaristico» (sentenza n. 561 del 1987).

Non si può, peraltro, ignorare che una compressione della libertà personale può derivare dalla necessità di perseguire, tramite tale strumento e nel rispetto della riserva di legge e di giurisdizione, finalità dotate di pari dignità costituzionale. In tali casi, ove sia corretto il punto di bilanciamento raggiunto dalla legge tra gli interessi confliggenti, la liceità degli atti e delle condotte tramite i quali la libertà inviolabile è parzialmente sacrificata, pur opponendosi alla configurazione di strumenti risarcitori di tutela, non costituisce valida ragione per escludere, in forza dell’inderogabile dovere di solidarietà, il ristoro indennitario «dovuto per il semplice fatto obiettivo e incolpevole dell’aver subito un pregiudizio non evitabile, in un’occasione dalla quale la collettività nel suo complesso trae un beneficio» (sentenza n. 118 del 1996).

Anzi, tale ristoro diviene, a queste condizioni, costituzionalmente necessario: questa Corte ha ripetutamente affermato simile principio, con riguardo al danno incolpevole patito da chi, per esigenze di tutela della collettività, sia stato assoggettato a vaccinazione obbligatoria e, imprevedibilmente, ne abbia riportato un danno alla salute (sentenze n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990).

L’istituto della riparazione per l’ingiusta detenzione previsto dall’art. 314, comma 1, cod. proc. pen. condivide tale finalità solidaristica (sentenza n. 109 del 1999 e n. 446 del 1997), giacché disciplina un’ipotesi in cui il provvedimento cautelare, restrittivo della libertà personale, è sorto ed è stato mantenuto in vigore legittimamente, ma si è rivelato solo ex post “ingiusto”, in ragione dell’assoluzione nel merito dell’imputato. Le esigenze di tutela della collettività hanno imposto, e legittimato, una misura, il cui pregiudizio in capo all’imputato si è potuto apprezzare solo all’esito del processo penale, permanendo peraltro lecito, proprio alla luce di dette esigenze, e dell’osservanza delle condizioni richieste dalla legge per soddisfarle.

Per tale evenienza, nonostante il difetto delle condizioni per il riconoscimento di una tutela risarcitoria, il legislatore ha ritenuto di rimediare alla oggettiva lesione del diritto inviolabile tramite una misura indennitaria, affidata, quanto alla fase di liquidazione, alla valutazione equitativa del giudice, che potrà in tal modo trovare, caso per caso, il ristoro adeguato alla sofferenza incolpevolmente patita dall’individuo.

Tuttavia, l’art. 314 cod. proc. pen. condiziona espressamente tale rimedio alla circostanza per cui, all’esito del giudizio, l’imputato sia stato prosciolto nel merito.

Tale limitazione viene contestata, sul piano della legittimità costituzionale, dalle Sezioni unite, le quali assumono a causa dell’impedimento nel configurare il diritto alla riparazione «per la parte (di custodia cautelare) eccedente l’entità della pena in concreto inflitta» proprio l’univoca norma che subordina la possibilità di riparazione per l’ingiusta detenzione al fatto che l’imputato sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile di merito.

Tramite la disposizione censurata, il legislatore ha pertanto inteso normare gli effetti della custodia cautelare, a processo concluso, in relazione all’esito del giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato.

Tale scelta legislativa appare manifestamente irragionevole, e pertanto lesiva dell’art. 3 della Costituzione.

Non è infatti costituzionalmente ammissibile, sotto tale profilo, che l’incidenza che la custodia cautelare ha esercitato sul bene inviolabile della libertà personale dell’individuo, nella fase anteriore alla sentenza definitiva, possa venire apprezzata con esclusivo riferimento all’esito del processo penale, e per il solo caso di assoluzione nel merito dalle imputazioni. Se, infatti, un sacrificio della libertà personale vi è stato durante la fase della custodia cautelare, il meccanismo solidaristico della riparazione non può che attivarsi anche per tale caso, quale che sia stato l’esito del giudizio, e pertanto anche ove sia mancato il proscioglimento nel merito. È, per tale ragione, palesemente privo di ragionevolezza che il legislatore pretenda di apprezzare la ricorrenza delle condizioni necessarie ai fini della riparazione alla luce dell’esito della vicenda processuale concernente il merito dell’imputazione, e non già della sola lesione verificatasi durante l’applicazione della misura custodiale.

Per apprezzare quest’ultima, non è poi certamente possibile limitarsi a constatare la legalità del procedimento di applicazione della misura cautelare: invero, le guarentigie attorno alle quali si deve costituire il nucleo irriducibile dell’inviolabilità del diritto apparirebbero ben misero presidio, se esse fossero soddisfatte dalla mera osservanza della riserva di legge e della riserva di giurisdizione contenute nell’art. 13 della Costituzione, senza accompagnarsi all’imposizione di un fine costituzionalmente tracciato che le giustifichi sostanzialmente, per la parte in cui esse si rendono strettamente e necessariamente strumentali al suo perseguimento.

Tale elemento è il proprium dell’inviolabilità del diritto nei confronti del legislatore ordinario, la cui osservanza è affidata al controllo di costituzionalità di questa Corte.

Le finalità costituzionali proprie delle misure cautelari, che incidono sulla libertà personale nel corso del procedimento penale, sono state individuate, con consolidata giurisprudenza di questa Corte, «unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo» (sentenze n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980)

Pertanto, i «limiti che deve incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva» (sentenza n. 229 del 2005; si vedano, inoltre, le sentenze n. 223 del 2006; n. 292 e n. 232 del 1998; n. 15 del 1982; le ordinanze n. 397 del 2000 e n. 269 del 1999).

Ove, tuttavia, la durata della custodia cautelare abbia ecceduto la pena successivamente irrogata in via definitiva è di immediata percezione che l’ordinamento, al fine di perseguire le predette finalità, ha imposto al reo un sacrificio direttamente incidente sulla libertà che, per quanto giustificato alla luce delle prime, ne travalica il grado di responsabilità personale.

Tale sacrificio non cessa per tale ragione di essere apprezzato in termini di piena legittimità: una circostanza sopravvenuta non incide sul giudizio di conformità della restrizione della libertà personale in fase cautelare alla fattispecie legale. Ma non è questo il punto in discussione: si tratta invece di decidere se il perseguimento di obiettive esigenze connesse alla tutela della collettività non solo consente la compressione di un diritto inviolabile, alle condizioni e nei casi previsti dalla legge, ma permette altresì al legislatore di negare l’attivazione di meccanismi solidaristici di riparazione del sacrificio, seppure introdotti e disciplinati compiutamente per altri analoghi casi.

La risposta a tale quesito non può che essere negativa: è anzi proprio la predisposizione di misure cautelari incidenti sulla libertà personale dell’individuo, e forgiate in rapporto ad esigenze generali ed obiettive alle quali l’imputato si trova soggetto, a nutrire il fondamento squisitamente solidaristico della riparazione per ingiusta detenzione e ad imporne costituzionalmente l’estensione alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel merito..

In tal modo inquadrati i termini della questione sottoposta a questa Corte, risulta chiaro che solo in apparenza la posizione di chi sia stato prosciolto nel merito dall’imputazione penale si distingue da quella di chi sia stato invece condannato (quanto, ovviamente, al solo giudizio circa l’ingiustizia della custodia cautelare che soverchi la pena inflitta).

In entrambi i casi, l’imputato ha subito una restrizione del proprio diritto inviolabile. In entrambi i casi, pertanto, ricorre l’obbligo costituzionale di indennizzare il pregiudizio.

Assumendo in considerazione la prima ipotesi soltanto, ed omettendo di disciplinare la seconda, il legislatore ha violato l’art. 3 della Costituzione.

L’art. 314 cod. proc. pen. deve essere pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni. Naturalmente, una volta sancito il diritto alla riparazione, la quantificazione dell’indennizzo verrà compiuta dal giudice, nelle forme e secondo i criteri allo stato vigenti.

Sotto tale prospettiva, la Corte ritiene opportuno sottolineare che il carattere di concretezza proprio di siffatta valutazione implica che la distinzione tra prosciolto e condannato, irrilevante ai fini dell’an debeatur, alle condizioni appena esposte, torni a manifestarsi in sede di determinazione del quantum debeatur.

Per la parte in cui l’indennizzo si correla ad un ristoro del patimento morale subito dall’imputato, pare evidente, infatti, che il grado di sofferenza cui è esposto chi, innocente, subisca la detenzione sia in linea di principio amplificato rispetto alla condizione di chi, colpevole, sia ristretto per un periodo eccessivo rispetto alla pena.

Spetterà, peraltro, ai giudici comuni valutare le peculiarità di ciascuna fattispecie loro sottoposta, al fine di adeguarvi l’indennizzo previsto dalla legge, alla luce della compromissione del fondamentale valore della persona umana.

Naturalmente, la presente decisione non osta a che il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, possa in futuro revisionare l’istituto della riparazione nel rispetto delle fondamentali esigenze di tutela del valore primario della libertà personale dell’individuo.

Questa sentenza, infatti, ha per oggetto – secondo quanto già osservato al punto 4 – la sola ipotesi, rilevante ai fini del giudizio a quo, in cui la pena definitivamente inflitta all’imputato, ovvero oggetto di una preclusione processuale che la sottragga a riforma nei successivi gradi di giudizio, risulti inferiore al periodo di custodia cautelare sofferto.

Resta pertanto escluso il riconoscimento dell’indennizzo in fattispecie nelle quali la mancata corrispondenza tra detenzione cautelare e pena eseguita o eseguibile – se diversa da quella inflitta – consegua a vicende posteriori, connesse al reato o alla pena. In tali casi, infatti, si produce una situazione affatto diversa rispetto a quella che induce questa Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen.

Sono assorbite le ulteriori censure svolte dal rimettente, con riguardo agli artt. 2, 13 e 24 della Costituzione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, secondo quanto precisato in motivazione;

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 314 cod. proc. pen. sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Trieste con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008.

AGGRAVANTE DELLA CONDIZIONE DI STRANIERO ILLEGALMENTE PRESENTE NEL TERRITORIO DELLO STATO:TRACCE DI INCOSTUZIONALITA’ A PRIMA LETTURA.

AGGRAVANTE DELLA CONDIZIONE DI STRANIERO ILLEGALMENTE PRESENTE NEL TERRITORIO DELLO STATO:TRACCE DI INCOSTUZIONALITA’ A PRIMA LETTURA.
di Fabio Maria Ferrari , avvocato del Foro di Napoli


Quelli che seguono intendono essere dei sommari spunti di riflessione in merito alle torsioni costituzionali provocate dall’introduzione della circostanza aggravante contenuta nell’art. 1 lett. f) del D.l. n.92 del 23.5.08 (attualmente in corso di conversione); novella che ha aggiunto ,al catalogo delle aggravanti comuni, l’art. 61 n.11 bis.
L’inedita disposizione prevede un aggravamento della pena “ se il fatto è commesso da un soggetto che si trova illegalmente nel territorio nazionale”.
All’indomani dell’entrata in vigore della disposizione, si sono immediatamente sollevate, nella comunità dei giuristi, non poche perplessità circa la sua compatibilità con le norme costituzionali ( tra gli altri, si è espresso in questo senso il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, avv.prof. Oreste Dominioni).
In questa sede, non ci si soffermerà sulla sin troppo scontata antinomia del dettato dell’aggravante con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), che ai più è parso naturale dedurre; ciò con riguardo alla irragionevole discriminazione che la norma introduce tra cittadini stranieri in possesso di regolare titolo di soggiorno, e c.d. clandestini.
I profili che paiono degni di maggior interesse sono, invece, relativi alla dissonanza della disposizione con il principio di offensività (art. 25 Cost.), con gli obblighi internazionali (art. 117 Cost.), con il principio di colpevolezza e con quello di rieducazione della pena (art. 27 Cost.).
Quanto al primo versante di analisi, non vi è dubbio che l’offensività concerna anche gli accidentalia delicti, dal momento che il fatto-reato, per effetto della eterointegrazione operata dalla circostanza, da reato semplice diviene “circostanziato”, determinando un aggravamento della sanzione.
La circostanza in esame ha carattere squisitamente soggettivo; essa è ricompresa tra quelle che “concernono l’intensità del dolo o il grado della colpa, o le condizioni e le qualità personali del colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole” (art. 70 c.1, n.2 c.p.).
La peculiarità della circostanza prevista dall’art. 1 del D.L. 92/08 starebbe nell’esprimere un quid pluris del disvalore del fatto tipico che ad essa, di volta in volta, si riconnette. Disvalore collegato ad uno status ed ad un illecito amministrativo: la qualità di straniero e l’essere privo, al momento della commissione del fatto, della necessaria autorizzazione amministrativa a risiedere nel territorio nazionale ( permesso di soggiorno o carta di soggiorno).
Se si guarda alle previgenti circostanze di segno soggettivo, non potrà non rilevarsi che, in generale, l’aggravamento di pena deriva:1) da una peculiare modalità dell’azione inerente la qualità dell’agente (l’ abuso di autorità o relazioni domestiche o la qualifica di pubblico ufficiale);2) da un particolare nesso psicologico, consistente nella causa psichica della condotta- a proposito dell’aver agito per motivi abietti e futili- e nella previsione dell’evento, seppure con la speranza di evitarne la realizzazione, nella colpa cosciente).
Nel caso che ci occupa, l’inasprimento della sanzione non è collegata a moventi dell’azione delittuosa, a relazioni interpersonali agevolatrici della commissione del fatto tipico (art. 61 n.11 c.p.) o alla natura della funzione rivestita ( art. 61 n.9 c.p.); ma all’essere l’autore un migrante (spesso per ragioni di sussistenza), entrato illegalmente nei confini nazionali, a prescindere dalla comminatoria di un provvedimento di espulsione. L’aggravante parrebbe applicarsi, secondo il tenore letterale della norma, persino ad un soggetto in precedenza legalmente residente in Italia, cui sia stato revocato o non rinnovato il precedente permesso . E’ una condizione che sembrerebbe essere più prossima a quelle che riguardano la persona del colpevole, ovvero alla recidiva (art. 70 c.2 c.p.): in tal senso, sembrerebbe denotare, secondo l’ intentio legis, una capacità a delinquere presunta.
Ed è proprio su tale presunzione di pericolosità, sganciata da un parametro obiettivo di riferimento, offerto quantomeno da un precedente accertamento giudiziale, eventualmente rivelatore dell’inclinazione a delinquere (come nel caso della recidiva), che si incentra il focus della mancanza di offensività, con conseguente vulnus dell’art. 25 Cost.
E’ noto che il principio di offensività prevede che non possa esservi reato senza violazione di un bene giuridico.
Sul punto, si condividono le osservazioni di F. Bricola ( Scritti di diritto penale, Giuffrè) circa la necessità che la privazione della libertà personale in cui si concreta la sanzione postuli un nesso tra pena e beni di rilievo costituzionale. L’inflizione della pena, secondo l’insigne Autore, esige un rapporto di proporzione tra il male minacciato (la privazione della libertà personale) e ciò che la forza dissuasiva dello strumento punitivo intende evitare (l’offesa contenuta nel reato). In altri termini, la sanzione deve colpire un’offesa significativa (connessa a valori costituzionali) e non risentire delle valutazioni di opportunità politica del Legislatore o, peggio, delle ondate emotive in tema di esigenze di prevenzione e sicurezza. A meno di non ricadere nelle nefandezze della colpevolezza d’autore, coniata dai giuristi del periodo nazista, secondo cui andava repressa la mera disobbedienza non solo alle leggi dello Stato, ma anche al sentimento del popolo,espressione di quel regime autoritario.
Tra i beni costituzionalmente garantiti non è incluso il controllo sui flussi di immigrazione, di tal che l’aggravante non trova un solido aggancio nella gerarchia dei valori costituzionali.
A proposito di proporzionalità dell’offesa, la Corte Cost. ha espunto dal catalogo delle incriminazioni di parte speciale (con la sentenza n.370/96) un reato di mero sospetto, quale il possesso ingiustificato di valori. In detta sentenza, la Consulta censurava la discriminazione che colpiva gli autori della contravvenzione in esame, solo a causa dell’essere gravati da precedenti penali. Discriminazione che penalizzerebbe anche gli stranieri, tuttavia stavolta in merito ad un illecito amministrativo (talvolta neppure accertato), conseguente alla violazione delle disposizioni concernenti la disciplina dell’ingresso degli stranieri in Italia. Sulla stessa lunghezza d’onda, va rammentato anche il precedente di Corte Cost. n.354/02, con il quale si è pervenuti alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 688 c.2 c.p. (che puniva lo stato di manifesta ubriachezza di chi era stato condannato per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.
Osserva la Corte : <L’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale..Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato>.
Traslando tali argomentazione all’aggravante in esame, non è revocabile in dubbio che anche la condizione di “straniero irregolare” assume la natura di “marchio” indelebile, pur non essendo espressiva di alcun ulteriore disvalore riferibile al reato-base.
Un ulteriore rilievo di incostituzionalità concerne la violazione dell’art. 117 Cost., a riguardo dell’osservanza dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Sino all’entrata in vigore della riforma del titolo V della Costituzione, si riteneva che le norme pattizie non riconducibili ai precetti comunitari non fossero direttamente operanti nell’ordinamento. Le norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo,ad esempio, non erano mai state utilizzate come parametro dell’illegittimità delle norme ordinarie, pur essendo ( secondo C.Cost. n.10/93) espressione di una “fonte atipica e, come tali insuscettibili di abrogazione o modificazioni da parte di una legge ordinaria”. Il novellato testo dell’art. 117 Cost. consente, attualmente, di ritenere applicabili, attraverso l’interposizione dello scrutinio di costituzionalità, i principi pattizi configgenti con le norme ordinarie.
Ciò posto, non può disconoscersi che l’art. 61 n.11 bis c.p. possa configurare una violazione dell’art. 11 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea Generale dell’ONU in data 16.11.66, che recita : “ Tutti sono uguali dinanzi ai tribunali e alle corti di giustizia”.
Tale disposizione potrebbe prefigurare un’eguaglianza non solo nell’accesso alla giustizia e nell’esercizio dei diritti di difesa, ma anche un divieto di discriminazioni nell’applicazione delle sanzioni; la cui gravità non può dipendere da una condizione casuale , del tutto avulsa dalle accuse oggetto della pretesa punitiva statuale, nella specie l’aver violato o meno le disposizioni amministrative in materia di immigrazione.
C’è da chiedersi, inoltre, se la previsione dell’aggravante violi il divieto di retroattività delle sanzioni previsto dall’art. 15 del Patto e dall’art. 7 della Convenzione Internazionale dei diritti dell’Uomo; ciò laddove l’ inasprimento della sanzione sia provocato da un ingresso o un trattenimento illegali antecedenti al fatto reato cui accede l’aggravante ( analogo problema si pone in relazione all’art. 25 c.2 Cost.)
Quanto alla violazione del principio di colpevolezza sancito dall’art. 27 comma 1 Cost., deve ritenersi che non sia rispettato, nella previsione della circostanza, il legame tra fatto ed autore. Infatti, secondo il vigente art. 59 c.p. la circostanza in esame verrebbe imputata allo straniero irregolare se da questi conosciuta o ignorata per colpa. Tuttavia, è arduo immaginare che l’autore del fatto criminoso possa rappresentarsi un siffatto fattore di aggravamento della pena, o ignorarlo colposamente, trattandosi di elemento non radicato nella psiche del reo ( come ad esempio, il motivo abietto e futile), né facilmente intellegibile, perché fondato su una condizione esistenziale (ancorchè illegale) non percepita in rapporto di causa-effetto con la commissione di un fatto-reato ( dal quale è completamente slegata).
Infine, il contrasto con il principio di rieducazione della pena, ex art. 27 u.c. Cost.
A tal proposito, è opportuno precisare che l’introduzione dell’aggravante implica una funzione di prevenzione generale della pena che è estranea alla previsione costituzionale, la quale invece opta per una visione di prevenzione speciale che è orientata, nella fase esecutiva, alla finalità di risocializzazione.
Non sembra, quindi, costituzionalmente adeguata, ai principi di colpevolezza e di rieducazione della pena, la previsione, ( e l’irrogazione) di una sanzione più grave, per certi versi esemplare e, per così dire, promozionale,nel quadro di un giro di vite sull’immigrazione irregolare.
In definitiva, una disposizione che presenta non poche frizioni con il dettato costituzionale, e che parrebbe costituire una tappa intermedia verso l’ altrettanto opinabile introduzione del reato di immigrazione clandestina ( contenuta nel disegno di legge sulla sicurezza all’esame del Senato). Non resta che auspicare un ripensamento in sede di conversione del D.l. 92/08,, prima che la Consulta si ritrovi alle prese con una prevedibile valanga di incidenti di costituzionalità.


Fabio Maria Ferrari


giovedì 19 giugno 2008

Il problema del giudicato con riguardo ai giudizi dinnazi alla Corte costituzionale.

da forum costituzionali

Sapienza Università di Roma
Facoltà di Giurisprudenza
Dipartimento di Scienze Giuridiche
Sezione di Filosofia del Diritto e Teoria dell’Interpretazione

Seminario di Studi
Lunedì 23 giugno 2008 – ore 10.00 - Sala delle Lauree

Il problema del giudicato con riguardo ai giudizi
dinnanzi alla Corte costituzionale


Presiede: Franco Modugno

Gian Piero Calabrò, Giustizia e giudicato

Filippo Satta, Il giudicato fra Corte costituzionale e giudice amministrativo

Giorgio Spangher, Conflitti: gli effetti della decisioni della Corte costituzionale sugli
atti del processo penale

Remo Caponi, Crisi del giudicato civile e giustizia costituzionale

Federico Tedeschini, Le sentenze della Corte costituzionale sui conflitti. Effetto
conformativo ed esecuzione. Spunti di riflessione

Renato Rolli, Giudicato e valore del precedente nel giudizio amministrativo

Interventi e dibattito.

Augusto Cerri, Riflessioni conclusive

Il Seminario si propone di vagliare il rilievo che assume il giudicato nella giustizia costituzionale, pur nella consapevolezza del valore relativo di questo istituto e di questo concetto nei vari contesti e nei vari processi in cui viene declinato.
Il giudicato, come è noto, è un limite alla proponibilità della questione incidentale e agli effetti della sentenza di accoglimento, ma, al tempo stesso, si discute se la sentenza di rigetto o di accoglimento produca, di per sé, un effetto di giudicato nel processo a quo.
Di giudicato si parla con riguardo alle decisioni sui conflitti fra Stato e Regioni e fra poteri dello Stato, salvo a stabilire se questa espressione abbia un contenuto effettivo. Al tempo medesimo, anche nei conflitti tra Stato e Regioni, può venire in essere un giudicato in sedi diverse da quelle del giudizio costituzionale, quante volte l’atto possa essere portato e sia stato portato all’esame di un altro giudice. Si tratta allora di stabilire quanto il giudicato, venuto in essere nel giudizio dinnanzi alla Corte costituzionale, possa influire in sede diversa e quanto il giudicato venuto in essere in sede diversa possa avere effetto anche nel giudizio promosso davanti alla Corte. Occorre anche stabilire, in questo settore, quale sia, e se sussista, il contenuto di un giudicato in giudizi che nascano da un atto in ipotesi illegittimo.
Il giudizio dinnanzi alla Corte può interferire con un giudizio pendente in sede penale, quante volte le modalità di svolgimento del giudizio penale si considerino lesive di attribuzioni costituzionalmente garantite. Si tratta di vedere se e in che modo il giudizio innanzi alla corte abbia effetto in sede penale.
Il che del resto è comune ai giudizi propri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quando rilevino la violazione di garanzie procedurali indefettibili.
Si tratta di notazioni puramente preliminari che non intendono pregiudicare la libertà e la ricchezza del Seminario che si svolgerà.



La S.V. è cordialmente invitata ad intervenire

Prof. Augusto Cerri
Il Preside
Prof. Carlo Angelici

lunedì 16 giugno 2008

Da Altalex : Privacy – tutela – test droga a parlamentari – condanna degli autori – sussistenza – legittimità


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 24 aprile - 10 giugno 2008, n. 23086

(Presidente Vitalone - Relatore Squassoni)

Motivi della decisione

Con sentenza 16 ottobre 2007, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha applicato a P. D. e V. M. la pena concordata per il reato previsto dall'art. 167 c. 2 DLvo 196/2003 (per avere, in qualità di ideatori di un servizio televisivo avente ad oggetto il consumo di stupefacenti, proceduto, senza il consenso degli interessati e l'autorizzazione del Garante, alla raccolta di dati personali sensibili - campioni organici di cinquanta Deputati e sedici Senatori- ed alla successiva analisi per accertare la eventuale traccia di sostanze stupefacenti).
Per l'annullamento della sentenza, gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e sostenendo che la fattispecie materiale non era inquadrabilenella ipotesi di reato contestata.
Tanto premesso, deve precisarsi come gli imputati, che hanno concordato la pena con l'organodella accusa, non possono mettere in discussione le coordinate del patto che loro stessi hanno sollecitato e che il Giudice, all'esito del sindacato che la normativa gli demanda, ha ritenuto conforme a giustizia; di conseguenza, il ricorso per Cassazione è limitato al solo caso in cui il patto si pone in violazione di legge.
Tale è l'ipotesi prospettata dagli imputati i quali hanno sostenuto che i fatti per cui è processo non hanno rilevanza penale sia perché la violazione di norme del codice deontologico deigiornalisti è sanzionata in via amministrativa sia per la mancanza di uno degli elementi della fattispecie (nocumento alle parti lese). Le prospettazioni non sono fondate.
L'attuale normativa ha dedicato al trattamento dei dati effettuati dai giornalisti e dai soggetti ad essi equiparati gli artt. 136, 137, 138, 139 DLvo 196 /2003. Queste disposizioni, nell'alveo della precedente disciplina (art.25 L.675/1996 novellato dall'art. 12 DLvo 171/1998), esonerano, anche in relazione ai dati sensibili, il giornalista che persegue il fine della sua professione dal consenso dello interessato e dalla autorizzazione del Garante a precise, indefettibili condizioni per la liceità del trattamento.
A sensi dell'art. 137 uc citato, il giornalista deve rispettare i limiti del diritto di cronaca, in particolare, quello della essenzialità della informazione riguardo a fatti di interesse pubblico; inoltre, può trattare i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamentedagli interessati o attraverso un loro comportamento pubblico.


Questa ultima condizione non è stata rispettata nel caso in esame nel quale i campioni biologici sono stati carpiti con un comportamento ingannevole e fraudolento. Consegue che gli imputati hanno disatteso una previsione contenuta non nel codice deontologico, ma nella normativa in materia di protezione dei dati personali; consegue, ancora, che gli imputati non possono invocare la previsione derogatoria dell'art. 137 del DLvo 196/2003.
Per quanto concerne il nocumento alle parti lese, è esatta la deduzione difensiva secondo la quale il trattamento illecito dei dati senza il consenso dell'avente diritto è penalmente irrilevante se dal fatto tipico non deriva danno alla persona offesa; i ricorrenti hanno sostenuto che non vi è stato un vulnus per alcuno dal momento che i lori accertamenti non permettevano di associare l'esito del test a persone note.
Sul punto, deve precisarsi come la circostanza che il capo di imputazione non facesse riferimento a specifici soggetti trovati positivi all'esame non è decisiva.
Gli imputati hanno diffuso la notizia che alcuni Senatori e Deputati, pur rimasti anonimi, erano positivi alla analisi per la individuazione di sostanze stupefacenti; l'informazione evidenziava che taluno, entro una circoscritta e determinabile cerchia di persone, faceva indebito uso di droghe.
In tale situazione, tutti i Parlamentari potevano essere indiscriminatamente sospettati di assumere stupefacenti con la conseguenza che ogni membro del Senato o della Camera dei Deputati, nonché la istituzione parlamentare, ha subito un nocumento alla sua immagine pubblica ed onorabilità.
Per le esposte considerazioni la Corte dichiara inammissibile il ricorso con condanna dei proponenti in solido al pagamento delle spese processuali esingolarmente al versamento della somma- che ritiene equo fissare ineuro millecinquecento- alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di euro millecinquecento alla Cassa della Ammende.