giovedì 27 marzo 2008

Cass. pen. Sez. Unite sentenza n. 32009/06 : Difensore ed investigazioni difensive .


Cass. pen. Sez. Unite, (ud. 27-06-2006) 28-09-2006, n. 32009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.
MARVULLI Nicola - Presidente Dott. LUPO Ernesto - Consigliere Dott.
LATTANZI Giorgio - Consigliere Dott. CALABRESE Renato Luigi -
Consigliere Dott. MARZANO Francesco - Consigliere Dott. AGRO' Antonio
Stefano - Consigliere Dott. CARMENINI Secondo Libero - Consigliere
Dott. GIRONI Emilio - Consigliere Dott. FIALE Aldo - Consigliere ha
pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: S.L., nato a
(OMISSIS); avverso la sentenza 19.10.2004 della Corte di Appello di
Torino; Visti gli atti, la sentenza impugnata ed ilricorso; Udita, in
pubblica udienza, la relazione fatta dal Consigliere Dr. Aldo Fiale;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Dott. PALOMBARINI Giovanni,
il quale ha concluso per il rigetto del ricorso. Udito il difensore,
Avv.to ZANCAN Gian Paolo.

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 19.10.2004, in parziale riforma della sentenza 26.2.2003 del G.I.P. del Tribunale di quella città, pronunciata in seguito a giudizio celebrato con il rito abbreviato:
a) confermava l'affermazione della responsabilità penale di S. L. in ordine ai reati di cui: - all'art. 479 cod. pen. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico), per avere formato, il 5 febbraio 2001, un verbale falso nell'esercizio della attività di indagine svolta quale difensore di fiducia di B.Y. e quindi nell'esercizio di una pubblica funzione giudiziaria. - all'art. 378 cod. pen. (favoreggiamento personale), per avere aiutato il proprio assistito ad eludere le investigazioni della autorità formando il falso verbale e producendolo al Tribunale della libertà alla udienza dell'8 febbraio 2001 e, con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, essendo stati unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., ribadiva la condanna dell'imputato alla pena principale complessiva di sei mesi di reclusione ed alle pene accessorie temporanee di legge, nonchè la concessione del beneficio della sospensione condizionale;

b) sostituiva la pena detentiva con quella pecuniaria corrispondente di Euro 6.840,00 di multa.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dello S., il quale ha dedotto erronea applicazione della legge penale nonchè mancanza di motivazione in ordine al giudizio di sussistenza di entrambi i reati addebitatigli.
Secondo i motivi di gravame, in particolare:

a) Quanto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen. : - la relazione di presentazione alla Commissione giustizia del Senato del disegno di legge sulle indagini difensive esordisce affermando che il difensore è rimasto un privato esercente un servizio di pubblica necessità e vi
sarebbe traccia, nei lavori parlamentari, della ritenuta superfluità della previsione dell'art. 334 bis c.p.p. (esclusione dell'obbligo di denuncia nell'ambito dell'attività di investigazioni difensive), attesa tale qualifica privatistica; - la norma dell'art. 359 cod. pen. indica che il ruolo del difensore attiene alla cura degli interessi processuali dell'imputato. La nozione oggettiva di "pubblico ufficiale", introdotta con la L. 26 aprile 1990, n. 86 , dovrebbe considerarsi, invece, residuale e non operante quando permanga, come nella specie, una esplicita diversa qualificazione del soggetto agente;
- di nessun rilievo, ai fini del decidere, dovrebbe considerarsi la giurisprudenza che attribuisce al difensore la qualità di pubblico ufficiale nell'esercizio del potere di autentica di una sottoscrizione.
La difesa evoca, piuttosto, la giurisprudenza antecedente alla L. 7 dicembre 2000, n. 397 che, riferendosi al previgente art. 38 disp. att. c.p.p. , nell'evidenziare la valenza processuale delle attività di indagine del difensore, ha comunque sottolineato la permanenza, in capo allo stesso, della qualità di esercente un servizio di pubblica necessità (Sez. 3^, 26.9.1997, n. 2812, Lutfija; Sez. 5^, 2.12.1999, n. 5214, Campailla; Sez. 1^, 28.12.1999, n. 6489, P.G. in proc. Di Meglio)
e una similare differenza è stata mantenuta tra il consulente del P.M. e il consulente della parte privata (Sez. 6^, 13.3.1996, n. 2675,Tauzilli);
- la formulazione dell'art. 327 bis, ove viene fissata la finalità del ruolo del difensore, sarebbe oggettivamente incompatibile con la qualità di "pubblico ufficiale", in considerazione della libertà che deve caratterizzare tutta l'attività del difensore medesimo, legato da un rapporto contrattuale alla realizzazione degli interessi dell'assistito;
- prevalenti sulle affinità sarebbero le differenze (sintomatiche di una assoluta diversità di ruoli) che caratterizzano le informazioni rispettivamente rese al difensore ed al P.M.: soltanto il P.M., infatti, ha una serie di poteri anche coattivi, mentre il difensore sarebbe esonerato, oltre che dal dovere di denuncia, anche da quello di documentare e produrre dichiarazioni sfavorevoli;
-significazioni concludenti potrebbero dedursi pure dalla differenza tra la dichiarazione mendace al difensore - rilevante penalmente - e la reticenza, irrilevante per quanto concerne le informazioni raccolte dal difensore e non in relazione a quelle assunte dal P.M.;
- il rinvio al titolo 3^ del libro 2^ del codice di rito, contenuto nell'art. 391 ter in relazione alle forme di documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni, opererebbe soltanto in quanto si tratti di norme applicabili e l'attività di autenticazione del difensore sarebbe limitata esclusivamente alla sottoscrizione. La documentazione del difensore, infine, avrebbe un valore processuale inferiore a quello della documentazione formata dal P.M.

b) Quanto al delitto di cui all'art. 378 cod. pen. : - non potrebbero ravvisarsi gli estremi di una consapevole volontà di favorire indebitamente l'imputato nel processo penale in una vicenda in cui il difensore ha ritenuto di non essere portatore di un dovere deontologico-professionale di
raccogliere, e quindi di documentare, dichiarazioni ostili o comunque nocive agli interessi del suo assistito e ciò in conseguenza del preciso precetto proclamato nell'art. 327 bis c.p.p., secondo cui le investigazioni difensive hanno per esclusivo oggetto la raccolta di prove "a favore del proprio assistito".

Il ricorso è stato assegnato alla 5^ Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all'udienza del 31 gennaio 2006, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell'art. 618 c.p.p. , rilevando che:

- il tema della qualificabilità come pubblico ufficiale del difensore che redige il verbale di dichiarazioni raccolte, in sede di investigazioni difensive, ai sensi degli artt. 391 bis e 391 ter c.p.p., è al centro di un acceso dibattito dottrinario e giurisprudenziale, sfociato, quest'ultimo, anche nella rimessione alla Corte costituzionale di una questione di sospetta illegittimità delle norme sul presupposto che esse consentirebbero al difensore di confezionare un atto probatorio avente gli stessi effetti di quello della accusa, senza prevedere uguali obblighi di garanzia a tutela della genuinità della prova (Va rilevato, al riguardo, che il Giudice delle leggi, con ordinanza n. 264 del 20.6.2002, ha dichiarato la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza);

- seppure non risulti che la questione abbia formato oggetto di decisioni difformi, la stessa potrebbe comunque dar luogo a contrasti giurisprudenziali, tenuto anche conto di una recente sentenza di questa Corte Suprema secondo la quale l'art. 359 c.p. , n. 1, qualifica "come servizio di pubblica necessità la professione forense indipendentemente dalla natura degli specifici atti compiuti nell'esercizio della professione" (Cass., Sez. 5^, 28.4.2005, n. 22496,Benvestito). Ciò comporterebbe che, nella specie, la condotta del ricorrente dovrebbe essere inquadrata nel meno grave delitto di cui all'art. 481 cod. pen..

La Sezione remittente ha citato, al riguardo, più risalenti sentenze (Sez. 6^, 29.5.1986, n. 10973, Piersanti e Sez.1^, 9.10.1964, De Angelis) che hanno fatto registrare un contrasto tra la tesi della prevalenza, nella funzione del difensore, della cura e degli interessi processuali dell'imputato e la opposta tesi della riconoscibilità, in capo allo stesso difensore, della qualità di pubblico ufficiale quando svolge la funzione certificatrice in sede di autenticazione della sottoscrizione del mandato ad litem.

Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

Motivi della decisione

1. La ricostruzione fattuale della vicenda

La vicenda trae origine dall'arresto di due extra-comunitari - tali B.Y. e N.A. - nella ritenuta flagranza del reato di illecita cessione di sostanze stupefacenti del tipo hashish, essendo stati, i due, notati nell'atto di confabulare con giovani italiani ai quali consegnavano un qualcosa in cambio di denaro. Nell'occasione venivano bloccati anche tre di tali giovani ( C. L., B.G. e B.A.), i quali erano trovati in possesso complessivamente di poco meno di tre grammi di hashish. Era stata altresì recuperata una bustina contenente 55 grammi di hashish che il N., dopo un tentativo di foga, aveva lasciato cadere a terra.
In sede di convalida, il N. ammetteva di aver effettuato le cessioni di hashish ai ragazzi fermati e di avere diviso a metà con il B. il provento del reato: complessivamente 20.000 L..
Il B. negava invece ogni responsabilità, asserendo di essersi limitato a fare compagna al N.. Il
G.I.P. convalidava l'arresto nei confronti di entrambi, sottoponendoli a misura cautelare. B.A. aveva inizialmente dichiarato alla P.G. (conformemente al Bi.) che gli spacciatori erano due e che la droga gli era stata materialmente ceduta da B..

In sede di trattazione dell'istanza di riesame proposta nell'interesse del B., alla udienza dell'8 febbraio 2001, il difensore avv.to S. produceva un verbale, da lui redatto, delle dichiarazioni resegli dal Ba..

In tale verbale, recante la data del 5 febbraio 2001, il dichiarante riferiva che gli extra comunitari erano tre, dei quali uno solo aveva agito mentre gli altri avevano assistito senza partecipare.
In particolare il B. era da identificarsi in uno degli osservatori mentre lo spacciatore era il N.,
cioè la persona che deteneva la bustina contenente i 55 grammi di hashish e che era fuggito alla vista dei Carabinieri venendo poi bloccato.
Il successivo 23 febbraio, sentito dal P.M., B.A. riferiva che gli extra-comunitari erano tre ma egli si era avvicinato a quello che poi era riuscito a sfuggire alla cattura, persona che lo aveva
indirizzato agli altri due. Questi gli erano apparsi complici dal momento che erano assieme durante la trattativa e che, in seguito all'intervento della P.G., essendo stato ammanettato ad una panchina il B., questi aveva suggerito al Bi. di far sparire la bustina di hashish lasciata cadere dall'amico datosi alla fuga.
Dichiarava che tali circostanze erano state da lui riferite all'avvocato S., all'atto della redazione del verbale, ma che il difensore gli aveva detto "che non vi era bisogno di verbalizzarle" e che egli avrebbe potuto riferirle direttamente al tribunale, se richiesto.

Il Tribunale del riesame aveva, nelle more, confermato l'ordinanza custodiate con provvedimento nel quale aveva dato atto che le dichiarazioni rese dal Ba. al legale erano diverse da quelle rese dal medesimo alla polizia giudiziaria e altresì da quelle rese da Bi. e che comunque le aveva reputate "di dubbia utilizzabilità" per la incompleta verbalizzazione degli avvertimenti di cui all'art. 391 bis c.p.p., comma 3.

Il Presidente di quel Collegio, poi, aveva trasmesso al Consiglio dell'Ordine, per il procedimento disciplinare previsto dal comma 6 dell'art. 391 bis c.p.p., copia del verbale redatto dallo S. e del verbale della P.G., relativi alle dichiarazioni del Ba., unitamente alla ordinanza del Tribunale del riesame. Aveva informato anche, ai fini penali, la locale Procura della Repubblica. Questa aveva proceduto, quindi, nei confronti di Ba. per il reato di cui all'art. 371 ter c.p. (false dichiarazioni al difensore) e art. 378 cod. pen. (favoreggiamento personale) e nei confronti dello S. per i reati di falsità ideologica (art. 479 cod.pen. ) e favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.). I giudici del merito hanno ravvisato la responsabilità penale dello S., in ordine al reato di cui all'art. 479 cod. pen. , riconoscendogli la qualifica
di "pubblico ufficiale" nell'atto della redazione del verbale di indagini difensive, qualificato tale verbale come "attopubblico".

2. La questione controversa.

La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se integri il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 cod. pen. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391 bis e 391 ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele. Rileva, al riguardo,
questo Collegio che il legislatore, all'art. 359 del codice penale , qualifica il difensore come soggetto privato esercente un servizio di pubblica necessità. Deve ritenersi, tuttavia, che esso redige sicuramente un atto pubblico allorquando procede alla formazione del verbale nel quale trasfonde le informazioni ricevute ai sensi degli artt. 391 bis e ter c.p.p.. Il falso ideologico eventualmente commesso dal difensore in tale occasione diviene perciò sanzionabile ai sensi dell'art. 479 cod. pen. (e non dell'art. 481 c.p.).

2.1

La L. 7 dicembre 2000, n. 397 ha potenziato il ruolo del difensore nel processo penale, introducendo una disciplina organica delle indagini difensive, che ha tipizzato gli atti espletabili dal difensore, ricomprendendo in essi il colloquio con persone ritenute a conoscenza dei fatti, ed ha indicato le forme per documentare ed utilizzare nel processo i risultati dell'indagine stessa. A norma dell'art. 391 bis c.p.p., il difensore - nell'acquisire notizie da una persona a
conoscenza dei fatti oggetto di un processo - può procedere in tre modi:

a) conferire con essa, senza documentare il colloquio;

b)richiedere una dichiarazione scritta;

c) procedere ad esame diretto della stessa.

La documentazione del ricevimento di una dichiarazione scritta o dello svolgimento dell'esame orale deve avvenire secondo le modalità rispettivamente previste dall'art. 391 ter c.p.p.. L'art. 391 decies c.p.p. disciplina, poi, l'utilizzazione processuale della documentazione delle indagini difensive, prevedendo che il verbale delle dichiarazioni rese dalla persona informata dei fatti può essere utilizzato per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. ed è acquisibile al dibattimento mediante lettura ai sensi degli artt. 512 e 513 c.p.p.. Quanto alla documentazione diretta, da parte del difensore, di dichiarazioni acquisite nel corso di investigazioni difensive, va premesso anzitutto che non può sussistere alcun dubbio circa la sussistenza dell'obbligo di fedeltà del difensore nella verbalizzazione e dell'obbligo di documentare le dichiarazioni in forma integrale (principi affermati anche nelle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, approvate il 14 luglio 2001 dall'Unione delle Camere penali e nel Codice deontologico, con le modifiche apportate dal Consiglio nazionale forense il 26 ottobre 2002), che costituiscono ad evidenza una garanzia
pure per il soggetto chiamato dal legale a rendere le informazioni.

L'esistenza degli obblighi anzidetti si riconnette:

- alla ratio complessiva della L. n. 397 del 2000 , che, anche con riferimento all'art. 136 c.p.p. , ha introdotto una serie di regole per garantire la genuinità della dichiarazione (avvisi, avvertimenti, verbalizzazione integrale, conseguenze penali in caso di falso), al fine di attribuire alla indagine difensiva la stessa valenza probatoria dell'attività del P.M.;

- alla previsione dell'art. 371 ter c.p.p., che impone un dovere di veridicità, penalmente sanzionato, alla persona informata dei fatti che viene sentita dal difensore, trattandosi di disposizione che verrebbe del tutto vanificata qualora il difensore stesso potesse non riportare compiutamente o modificare arbitrariamente le dichiarazioni ricevute;

-al disposto dell'art. 391 bis c.p.p., comma 9, che prevede la sospensione del verbale quando la dichiarazione appaia autoindiziante e la inutitizzabilità, contro il dichiarante, delle dichiarazioni di tal genere eventualmente rese in precedenza. Ne deriva che la infedele o incompleta documentazione delle dichiarazioni acquisite a verbale dal difensore non può iscriversi nel novero delle garanzie di libertà dell'avvocato nell'espletare il proprio mandato nell'interesse del cliente.

2.2

Evidente è la differenza funzionale tra il P.M. e la difesa, in quanto solo il primo è tenuto a raccogliere tutte le emergenze riguardanti l'indiziato mentre al secondo la legge riconosce poteri ampiamente dispositivi.
Per attribuire però al difensore, in fase di documentazione delle indagini, la veste pubblica non occorre passare per la dimostrazione della parità dei doveri e dei poteri rispetto al P.M..
E' vero che il difensore non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità e che al professionista è riconosciuto il diritto di ricercare soltanto gli elementi utili alla tutela del proprio assistito, però sicuramente non gli è riconosciuto il diritto di manipolare le informazioni ricevute avvero di selezionarle verbalizzando solo quelle favorevoli. L'interesse dell'Avvocatura, del resto, non può che essere quello di rendere la prova dichiarativa assunta dal difensore affidabile al pari di quella raccolta dall'accusa, mentre la tutela difensiva resta assolutamente integra e non riceve compromissione alcuna attraverso il riconoscimento legislativo della possibilità di non fare seguire al colloquio preventivo la sua verbalizzazione, nonchè di omettere di utilizzare processualmente il verbale di dichiarazioni che contenga elementi sfavorevoli (art. 391 octies c.p.p.).
Il difensore, inoltre, altrettanto liberamente può addivenire alla scelta di acquisire le informazioni mediante relazione scritta dallo stesso dichiarante. La possibilità di non utilizzare l'atto non comporta che esso possa essere distrutto; significa solo che esso può rimanere nella disponibilità privata di colui che l'ha redatto ed il delitto di falso ideologico, pur essendo istantaneo, si ricollega comunque al momento in cui l'atto acquista giuridica rilevanza ai sensi dell'art. 391 octies c.p.p. e segg. non potendovi essere falsificazione ideologica punibile fino a quando l'atto rimane nell'ambito della facoltà di disposizione dell'agente (vedi Cass., Sez. 5^, 1.2.1993, n. 834).

2.3

L'art. 327 bis c.p.p. finalizza l'attività investigativa del difensore alla ricerca di elementi favorevoli ma rinvia, quanto alle forme da seguire, al titolo 6^ bis del libro 5^, ossia all'art. 391 bis c.p.p. e segg. e, tra l'altro, all'art. 391 ter c.p.p., che onera il difensore di autenticare "la dichiarazione" e non la sola sottoscrizione del verbale, con la conseguente ravvisabilità dell'esercizio di poteri tipici del pubblico ufficiale ex art. 2703 cod. civ..
Inoltre il verbale che documenta le dichiarazioni sottostà, per espressa disposizione dell'art. 391 ter c.p.p., alle disposizioni del titolo 3^ del Libro 2^ ossia all'art.134 c.p.p. e segg., in quanto applicabili. Tra queste disposizioni va ricordato l'art. 136 c.p.p. , che disciplina il contenuto del verbale e impone al redigente di riportare tutto quanto avvenuto in sua
presenza.

2.4

Il verbale nel quale il difensore raccoglie le informazioni è destinato a provare fatti determinati e a produrre gli stessi effetti processuali (perfetta equiparazione ai fini della prova) dell'omologo verbale redatto dal P.M. (vedi Cass., Sez. 2^, 9 aprile 2002, n. 13552, Pedi) e siccome non si pone in dubbio che quest'ultimo sia atto pubblico, la stessa natura deve attribuirsi anche al verbale redatto a cura del difensore. Ne consegue che il difensore ha gli stessi diritti e doveri del Pubblico Ministero per quanto riguarda le modalità di documentazione.

2.5

Sui criteri per identificare il pubblico ufficiale, a seguito delle modifiche apportate all'art. 357
cod. pen. dalle L. n. 86 del 1990 e L. n. 181 del 1992 , le Sezioni Unite penali:

a) con la sentenza n. 7958 del 27 marzo 1992 (depositata l'11 luglio 1992), Delogu, hanno rilevato che:

- I criteri normativi di identificazione introdotti dalla L. n. 86 del 1990, art. 17 non sono cumulativi, ma alternativi e, ai fini della qualificazione di pubblico ufficiale, è sufficiente, in particolare, l'esercizio disgiuntivo del potere autoritativo o certificativo;

- L'art. 357 cod. pen. , come successivamente novellato; attribuisce nel comma 1 la qualifica di pubblico ufficiale a coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. "La principale modifica rispetto al testo originario della norma è costituita dall'esclusione di ogni riferimento al rapporto di dipendenza del soggetto dallo Stato ovvero da altro ente pubblico, con la conclusiva sostituzione del criterio di distinzione funzionale- oggettivo a quello soggettivo. Per cui la qualifica di pubblico ufficiale deriva e risulta connotata esclusivamente dal concreto esercizio di una pubblica funzione";

b) con la sentenza n. 10086 del 13 luglio 1998 (depositata il 24 settembre 1998), Citaristi, hanno affermato che: - "Al fine di individuare se l'attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen. , è necessario verificare se essa sia o meno disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi - nell'ambito dell'attività definita pubblica sulla base di detto parametro oggettivo - la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza (nell'una) o la mancanza (nell'altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal comma 2 dell'art. 357 predetto".

Nella motivazione di questa sentenza le Sezioni Unite hanno rilevato che "è necessario ricordare che l'adozione del criterio oggettivo, realizzatosi con quell'auspicata riforma, si è tradotta in una connotazione funzionale dell'attività concretamente esercitata e che in tale prospettiva è essenziale la ricerca e l'individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore...quanto alla funzione legislativa e giudiziaria, è agevole ricordare che entrambe sono caratterizzate da connotazioni intrinseche così tipicizzate da non offrire certamente spazio a dubbi o perplessità, nè in relazione alla disciplina normativa alla quale esse sono sottoposte, nè con riferimento alle modalità del loro esercizio".

Le Sezioni Unite, inoltre, con la sentenza n. 15983 dell'11 aprile 2006 (depositata il 10 maggio 2006), Sepe - relativa ai criteri per individuare l'atto pubblico (in riferimento, nella specie, alla timbratura del cartellino marcatempo ad opera di un dipendente di una pubblica amministrazione) - hanno evidenziato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità e la prevalente dottrina, "agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell'art. 2699 cod.civ. , in quanto comprende non soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti formati da un pubblico ufficiale o da un pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica".

La identificazione della "funzione pubblica", dunque, a seguito della riforma dell'art. 357 cod. pen. , si basa sulla "concezione oggettiva", sostituita a quella "soggettiva" che aveva trovato accoglimento nella formulazione originaria del codice e, quando si tratta di un soggetto privato, l'indice rivelatore della pubblica funzione va ricercato nella disciplina normativa dell'attività da esso svolta, disciplina che deve evidenziare finalità di interesse pubblico.

Nè può utilizzarsi, per l'attività di documentazione del difensore, l'argomento - richiamato dalla giurisprudenza più recente formatasi con riferimento all'esercizio del potere di autenticazione della autografia delle sottoscrizioni apposte dalle parti nelle procure speciali rilasciate allo stesso difensore - secondo cui l'autentica di firma non è atto pubblico perchè non comprende dichiarazioni delle parti o attestazione di fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale (vedi, ad esempio, Cass., Sez. 2^, 22.1.2003, n. 3135, P.M. in proc. Quattrone):

tali dichiarazioni e fatti ricorrono, invece, nell'attività di documentazione del difensore qui esaminata. La giurisprudenza civile di questa Corte, del resto, con orientamento costante, evidenzia che "la funzione del difensore di certificare l'autografia della sottoscrizione della parte, ai sensi degli artt. 83 e 125 cod. proc. civ., pur trovando la sua base in un negozio giuridico di diritto privato (mandato), ha natura essenzialmente pubblicistica, atteso che la dichiarazione della parte, con la quale questa assume su di sè gli effetti degli atti processuali che il difensore è legittimato a compiere, è destinata a dispiegare i suoi effetti nell'ambito del processo. Ne consegue che il difensore, con la sottoscrizione dell'atto processuale e con l'autentica della procura riferita allo stesso, compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualità di pubblico ufficiale, la cui sottoscrizione può essere disconosciuta soltanto con la querela di falso" (così Cass., Sez. lavoro: 16 aprile 2003, n. 6047, Mastronicola c/Battista; 20 giugno 1996, n. 5711, Artar Cicli c/Rigon).

2.6

Irrilevante è la circostanza che, per la violazione del dovere di completezza della verbalizzazione, sia stata espressamente prevista (art. 391 bis c.p.p., comma 6) una sanzione disciplinare, perchè ciò non significa che il legislatore abbia intenzionalmente stabilito di sanzionare solo in via disciplinare la violazione del dovere di fedele documentazione del difensore. La previsione del rilievo disciplinare di un fatto non ne esclude la rilevanza anche sotto i profili penali e nel sistema processuale si rinvengono norme (quali l'art. 115 c.p.p., art. 25 disp. att. c.p.p. , art. 124 c.p.p. ) che prevedono illeciti disciplinari per condotte che pacificamente sono perseguite pure penalmente quando integrino estremi di reato.

2.7

Esiste un'evidente simmetria legislativa fra la falsità nelle dichiarazioni verbalizzate dal difensore (art. 371 ter cod. pen.) e quella riguardante le dichiarazioni verbalizzate dal P.M. (art. 371 bis cod.pen.), entrambe di rilevanza penale. E' vero che l'art. 371 ter cod.pen. punisce le false dichiarazioni ma, riconoscendo il diritto della persona informata ad avvalersi della facoltà di non rispondere al difensore, non ne punisce la reticenza. Il difensore, però, può fare ricorso alle particolari procedure previste dai commi 10 e 11 dell'art. 391 bis c.p.p., per ottenere le dichiarazioni della stessa persona dinanzi al P.M. o con incidente probatorio e, nella audizione ottenuta dinanzi al P.M. su richiesta del difensore (art. 391 bis c.p.p., comma 10), si applica la disposizione generale dell'art. 362 c.p.p. , che disciplina le modalità di assunzione delle informazioni da parte del P.M., a sua volta contenente il rinvio all'art. 198 c.p.p. , che sancisce l'obbligo del testimone di rispondere secondo verità. Neanche la reticenza, dunque, nella complessiva articolazione del sistema,rimane priva di sanzione.

2.8

L'esonero del difensore e collaboratori dall'obbligo di denuncia, stabilito dall'art. 334 bis c.p.p., non risolve la questione della loro configurabilità come pubblici ufficiali, ben potendosi ritenere delineata una figura di pubblico ufficiale eccezionalmente dispensato dall'obbligo di denuncia.

2.9

Correttamente i giudici del merito hanno ritenuto, infine, che nella specie non si tratta di falso innocuo. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di falsità di atti pubblici, la legge penale tutela il documento non per il suo contenuto e la sua validità intrinseca ma per la sua funzione attestativa e per la sua attitudine probatoria, sicchè la invalidità del rapporto giuridico rappresentato dal documento non esclude il delitto di falso previsto dall'art. 476 cod. pen. (vedi Cass., Sez. 5^: 16.12.1997, n. 11714, Lipizer e 12.2.1992, n. 1474, Goio).

Perchè il documento sia insuscettibile di protezione penale deve essere privo dei requisiti formali che ne consentono la riconoscibilità sì da potersi considerare "inesistente" e, d'altro canto, per la configurazione del reato, non occorre che l'atto, al momento della sua falsificazione, possa ritenersi valido per istituire o provare un rapporto, bensì che merce la falsificazione risulti idoneo a provare la sussistenza sia pure apparente, nei confronti dei terzi, della situazione documentata. Il verbale in questione, pur dichiarato dal Tribunale del riesame "inutilizzabile", non era privo di qualsivoglia rilevanza probatoria, ossia inesistente (qualità sulle quali, come si è detto, la giurisprudenza ha costruito la tesi del falso innocuo): esso, infatti, aveva comunque dato origine al procedimento penale a carico del Ba. e avrebbe potuto dare origine ad indagini contro il terzo complice rimasto ignoto.

3.

Ritengono, in conclusione, queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale integra il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 cod. pen. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a
norma degli artt. 391 bis e 391 ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele.


4.

Anche i motivi di gravame riferiti al delitto di cui all'art. 378 cod. pen. sono infondati. Va ribadita, al riguardo, la consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo la quale,
per la sussistenza del delitto di favoreggiamento personale, è sufficiente il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di prestare, con una condotta a forma libera, aiuto ad una persona in relazione ad un reato commesso, per eludere le investigazioni o per sottrarsi alle ricerche (vedi Cass.: Sez. 1^, 8.7.1999, n. 8786; Sez. I, 23.10.1995, n. 10544; Sez. 6^, 20.9.1991, n. 9819). Anche il difensore dell'imputato può rendersi responsabile del delitto di favoreggiamento personale allorquando presti un consapevole aiuto diretto, oltre i limiti dell'attività difensiva, anche solo ad intralciare l'opera di investigazione o di ricerca dell'autorità (vedi Cass., Sez. L, 26.6.1986, n. 6204): la difesa, infatti, quale diritto inviolabile, non ha nulla a che vedere con attività sleali o delittuose. Per la configurazione dell'esimente di cui all'art. 51 cod. pen. , l'esercizio di un diritto scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, essendo necessario che l'attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione. Nella vicenda in esame precise disposizioni legislative e deontologiche imponevano all'imputato la fedeltà nella verbalizzazione e non può costituire scriminante, neppure nella forma putativa, la convinzione dell'esistenza di un diritto in realtà
inesistente che si è tradotta in un esercizio del diritto di difesa al di fuori dei suoi limiti legali e naturali, non integrante errore relativo al fatto. E' fuorviante discettare, infine, della astratta possibilità di configurare un favoreggiamento personale del difensore in forma omissiva, perchè nella specie l'omessa verbalizzazione è soltanto un presupposto della condotta commissiva di produzione di un verbale contraffatto.

5.

Il ricorso, per tutte le argomentazioni svolte dianzi, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 607, 615 e 616, c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2006

Le regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive


REGOLE DI COMPORTAMENTO DEL PENALISTA NELLE INVESTIGAZIONI DIFENSIVE (dal sito dell'UCPI)




REGOLE DI COMPORTAMENTO DEL PENALISTA NELLE INVESTIGAZIONI DIFENSIVE
Testo approvato il 14 luglio 2001 dal Consiglio delle Camere Penali con le modifiche approvate il 19 gennaio 2007.

REGOLE GENERALI

Articolo 1
(Norme deontologiche applicabili)
1.
Nello svolgimento delle investigazioni difensive il difensore osserva
le norme del Codice deontologico forense, con particolare riferimento
ai doveri di probità, fedeltà, competenza e verità, nonché le ulteriori
norme degli articoli che seguono, nel rispetto del principio di lealtà
processuale e a garanzia della reale dialettica nel procedimento.
2.
Nessuna distinzione circa i doveri professionali in materia di
investigazioni difensive è consentita tra difensore di fiducia e
difensore d’ufficio.
Articolo 2
(Legittimazione alle investigazioni difensive)
1.
Il difensore è legittimato a svolgere investigazioni difensive sin dal
momento della nomina senza necessità di specifico mandato ed
indipendentemente dal deposito dell’atto di nomina presso l’autorità
giudiziaria.
2. Il mandato con sottoscrizione autenticata,
necessario per svolgere l’attività investigativa preventiva prevista
dall’articolo 391-nonies del codice di procedura penale, indica i fatti
ai quali si riferisce in modo sintetico al solo fine della
individuazione dell’oggetto di tale attività, con esclusione di ogni
riferimento ad ipotesi di reato.
3. La previsione del comma 2 non si applica al mandato rilasciato dalla persona offesa dal reato.
4.
Le disposizioni sull’attività investigativa preventiva si intendono
applicabili, oltre che per l’eventualità che si instauri un
procedimento penale, anche per le ipotesi:
a) che possa essere richiesta la riapertura delle indagini preliminari dopo il decreto di archiviazione;
b) che possa essere richiesta la revoca della sentenza di non luogo a procedere;
c) che possa essere richiesta la revisione;
d) che possano essere instaurati procedimenti davanti al giudice dell’esecuzione o alla magistratura di sorveglianza.
Articolo 3
(Dovere di valutazione)
1.
Il difensore, fin dal momento dell’incarico e successivamente fino alla
sua conclusione, ha il dovere di valutare, in relazione alle esigenze e
agli obbiettivi della difesa, la necessità o l’opportunità di svolgere
investigazioni, sia ai fini delle determinazioni inerenti alla difesa
stessa, sia per l’ipotesi di un impiego dei risultati nel procedimento,
secondo le forme, i tempi e i modi previsti dalla legge.
Articolo 4
(Direzione delle investigazioni)
1.
La decisione di iniziare e terminare le investigazioni, le scelte
sull’oggetto, sui modi e sulle forme di esse competono al difensore [,
in accordo con l’eventuale condifensore].
2. Quando non svolge di
persona le investigazioni e, secondo la previsione del comma 3
dell’articolo 327-bis del codice di procedura penale, si avvale di
sostituti, investigatori privati autorizzati e consulenti tecnici, il
difensore dà, anche oralmente, le direttive necessarie, cui i sostituti
e tali ausiliari hanno il dovere di attenersi, fermi tutti i loro
obblighi previsti dalla legge.
3. Nel dare le direttive il difensore
rammenta gli obblighi indicati al comma 2, con particolare riguardo a
quelli relativi agli avvertimenti alle persone con le quali occorre
conferire, agli accessi ai luoghi e alla ispezione delle cose, alla
eventuale redazione di verbali, al segreto sugli atti e sul loro
contenuto, nonché a quello di riferirgli tempestivamente i risultati
dell’attività svolta.
4. Ai fini dell’esercizio dell’incarico il
difensore dà ai sostituti e agli ausiliari le informazioni necessarie e
può fornire a essi, anche nell’ipotesi di segretazione dell’atto, copie
di atti e documenti, in ogni caso con vincolo di segreto.
5.
L’incarico agli investigatori privati e ai consulenti tecnici è
conferito con atto scritto, nel quale, fermo quanto previsto al comma
3, il difensore indica i loro doveri di:
a) osservare le disposizioni di legge, in particolare quelle sulle investigazioni difensive e sulla tutela dei dati personali;
b)
comunicare le notizie e i risultati delle investigazioni e rimetterne
l’eventuale documentazione soltanto al difensore che ha conferito
l’incarico o al suo sostituto;
c) salva specifica autorizzazione
scritta del difensore, rifiutare ogni altro incarico relativo o
connesso alla vicenda alla quale attiene quello conferito.
Articolo 5
(Informazioni preventive tra difensore e persona assistita)
1.
Nell’ambito dei rapporti informativi con la persona assistita al fine
di coordinare la difesa tecnica e l’autodifesa, il difensore, oltre ad
attingere eventuali notizie utili per apprezzare la necessità o
l’opportunità di svolgere investigazioni difensive, valuta la esigenza
di comunicare tempestivamente alla persona medesima tale apprezzamento,
anche con riguardo alle spese prevedibili per le relative attività.
Articolo 6
(Dovere di segretezza, limiti di utilizzazione, conservazione della documentazione)
1.
Il difensore ha il dovere di mantenere il segreto professionale sugli
atti delle investigazioni difensive e sul loro contenuto, finché non ne
faccia uso nel procedimento, salva la rivelazione per giusta causa
nell’interesse del proprio assistito.
2. In ogni caso, il difensore
utilizza la documentazione degli atti delle investigazioni difensive e
i relativi contenuti nei soli limiti e nei tempi in cui siano necessari
all’esercizio della difesa.
3. Il difensore cura di conservare
scrupolosamente e riservatamente la documentazione, anche informale,
delle investigazioni difensive per tutto il tempo in cui egli ritiene
che possa essere necessaria o utile per l’esercizio della difesa.
Articolo 7
(Rimborso delle spese documentate)
1.
E’ fatto divieto al difensore, al suo sostituto, agli ausiliari e ai
loro collaboratori di corrispondere compensi o indennità, sotto
qualsiasi forma, salvo il rimborso delle spese documentate, alle
persone che ai fini delle investigazioni difensive danno informazioni o
si prestano al compimento di accessi ai luoghi, ispezione di cose,
rilievi, consegna o esame di documenti e in genere alla esecuzione di
atti .

REGOLE PER LE INDAGINI DA FONTI DICHIARATIVE

Articolo 8

(Ricerca e individuazione di fonti)
1.
Il difensore, il sostituto e gli ausiliari incaricati procedono senza
formalità alla individuazione delle persone che possono riferire
circostanze utili alle investigazioni difensive. In ogni caso, nello
svolgimento dell’attività di individuazione di tali persone, informano
sempre le persone interpellate della propria qualità, senza necessità
di rivelare il nome dell’assistito.
2. Nello stesso modo si procede
alla individuazione delle altre fonti di prova e, in genere, delle
altre fonti di notizie utili alle indagini.
Articolo 9
(Avvertimenti)
1.
I soggetti della difesa, nell’informare le persone interpellate della
loro qualità, indicano la vicenda in ordine alla quale svolgono
investigazioni, senza necessariamente rivelare il nome dell’assistito.
2.
Oltre quanto è previsto dal comma 3 dell’articolo 391-bis del codice di
procedura penale, invitano le persone interpellate a dichiarare se si
trovano in una delle situazioni di incompatibilità previste
dall’articolo 197 comma 1, lettere c) e d) del codice di procedura
penale.
3. Inoltre, informano le persone interpellate che, se si
avvarranno della facoltà di non rispondere, potranno essere chiamate ad
una audizione davanti al pubblico ministero ovvero a rendere un esame
testimoniale davanti al giudice, ove saranno tenute a rispondere anche
alle domande del difensore.
4. Se si tratta di persone sottoposte a
indagine o imputate nello stesso procedimento o in altro procedimento
connesso o collegato ai sensi dell’articolo 210 del codice di procedura
penale, le informano che, se si avvarranno della facoltà di non
rispondere, potranno essere chiamate a rendere esame davanti al giudice
in incidente probatorio.
5. Se si tratta di prossimi congiunti di un
imputato o di una persona sottoposta alle indagini, li avvertono che,
anche in ragione di tale rapporto, hanno facoltà di astenersi dal
rispondere o dal rendere la dichiarazione nei casi previsti dalla legge.
6.
I soggetti della difesa possono altresì ricordare che ogni persona può
utilmente concorrere alla ricostruzione dei fatti e all’accertamento
della verità in un procedimento penale anche rendendo dichiarazioni al
difensore.
7. Quando i soggetti della difesa procedono con invito
scritto, gli avvertimenti previsti dalla legge e dalle norme
deontologiche, se non sono contenuti nell’invito stesso, possono essere
dati oralmente, ma devono comunque precedere l’atto.
Articolo 10
(Inviti e avvisi: casi particolari)
1.
Per conferire, chiedere e ricevere dichiarazioni scritte o assumere
informazioni da documentare dalla persona offesa dal reato i soggetti
della difesa procedono mediante un invito scritto.
2. Se la persona
offesa è assistita da un difensore, a costui è dato avviso almeno
ventiquattro ore prima. Se non risulta assistita da un difensore,
nell’invito è indicata l’opportunità che comunque un difensore sia
consultato e intervenga all’atto.
3. La disposizione del comma 1 si
applica anche quando si intende chiedere e ricevere una dichiarazione
scritta o assumere informazioni da documentare da una persona minore.
L’invito è comunicato anche a chi esercita la potestà dei genitori, con
l’avviso della facoltà di intervenire all’atto. In caso dipersona
minore infraquattordicenne, ferme restando le disposizioni precedenti,
per l'assunzione di informazioni o la richiesta di rendere
dichiarazioni, il difensore potrà avvalersi della presenza di un
esperton all'uopo nominato quale consulente della difesa.
4. Ai fini
dell’applicazione del comma 5 dell’articolo 391-bis del codice di
procedura penale, al difensore d’ufficio, nominato per l’atto, che ne
faccia richiesta, è dato un termine non inferiore a quelli previsti
dall’articolo 108 del codice di procedura penale.
Articolo 11
(Rapporti tra difensore e assistito nell’ambito delle investigazioni difensive)
1.
E’ fatto divieto ai soggetti della difesa di applicare le disposizioni
degli articoli 391-bis e 391-ter del codice di procedura penale nei
confronti della persona assistita.
2. Il difensore e il sostituto,
anche, se del caso, con la presenza degli ausiliari, scambiano
liberamente e riservatamente con il proprio assistito, nelle forme e
nei tempi opportuni, le informazioni necessarie ad assicurare un
coordinato esercizio della difesa tecnica e dell’autodifesa su tutti i
temi ritenuti utili. Inoltre, lo consigliano e lo assistono in
relazione agli atti, orali o scritti, nonché alle scelte che egli
compie personalmente nel procedimento.
Articolo 12
(Garanzie di genuinità delle dichiarazioni)
1.
Il difensore o il suo sostituto danno tutte le disposizioni necessarie
per realizzare condizioni idonee ad assicurare la genuinità delle
dichiarazioni.
Articolo 13
(Documentazione)
1.
Le informazioni assunte dal difensore, secondo le previsioni degli
articoli 391-bis comma 2 e 391-ter comma 3 del codice di procedura
penale, sono documentate in forma integrale. Quando è disposta la
riproduzione almeno fonografica possono essere documentate in forma
riassuntiva.
2. Nel verbale, redatto con le modalità previste al
comma 1, sono specificamente indicati i mezzi impiegati. Esso è
sottoscritto da tutte le persone presenti ed è conservato dal difensore
ai sensi del comma 6 dell’articolo 3.
3. Il difensore non è tenuto a rilasciare copia del verbale alla persona che ha reso informazioni né al suo difensore.

DISPOSIZIONI RELATIVE AGLI ACCESSI AI LUOGHI, ALLA ISPEZIONE DI COSE E AGLI ACCERTAMENTI IRRIPETIBILI

Articolo 14
(Doveri negli accessi ai luoghi e nella ispezione di cose)
1.
Il difensore, il sostituto e gli ausiliari, che procedono agli atti
indicati nell’articolo 391-sexies del codice di procedura penale, anche
quando non redigono un verbale, documentano nelle forme più opportune
lo stato dei luoghi e delle cose, procurando che nulla sia mutato,
alterato o disperso.
2. Oltre a quanto è previsto dal comma 2
dell’articolo 391-septies del codice di procedura penale, quando
intendono compiere un accesso a luogo privato o non aperto al pubblico,
i soggetti della difesa, nel richiedere il consenso di chi ne ha la
disponibilità, lo avvertono della propria qualità, della natura
dell’atto da compiere e della possibilità che, ove non sia prestato il
consenso, l’atto sia autorizzato dal giudice.
3. Gli avvertimenti indicati al comma 2 sono documentati almeno mediante annotazione.
Articolo 15
(Dovere di assicurare il contraddittorio negli accertamenti tecnici irripetibili)
1.
Quando i soggetti della difesa intendono compiere accertamenti tecnici
irripetibili, a cura del difensore o del sostituto è dato avviso senza
ritardo a tutti coloro nei confronti dei quali l’atto può avere effetto
e dei quali si abbia conoscenza.

DISPOSIZIONI FINALI

Articolo 16
1. Sono abrogate tutte le norme deontologiche relative alle investigazioni difensive, approvate a Catania il 30 marzo 1996.
2.
Entro il 31 maggio 2002 saranno valutati i risultati della applicazione
delle presenti norme e approvate eventuali norme integrative,
modificative o soppressive.
3. Le presenti norme sono trasmesse subito al Consiglio Nazionale Forense per tutte le determinazioni di competenza.

mercoledì 19 marzo 2008

Il programma del secondo weekend

XI CORSO NAZIONALE
DI
FORMAZIONE SPECIALISTICA DELL’AVVOCATO PENALISTA


MARZO–OTTOBRE 2008 ROMA
Sala Cesarini del Grand Hotel Palatino
(via Cavour n. 213/m – tel. 06.4814972, fax 06.4740726)




Programma secondo week-end


SABATO 29 MARZO



Ore 10.00 Indagini difensive. CHI, DOVE, COME, QUANDO E PERCHE’
Dottor Renato BRICCHETTI - Consigliere Corte Cassazione
Avv. Ettore RANDAZZO - Direttore Scientifico del Corso
Ore 13.00 Pausa
Ore 15.00 Comunicazione e persuasione
Prof. Emanuele MONTAGNA attore, regista, direttore di Scuole di Teatro, Docente di Tecniche della comunicazione e della persuasione all'Università di Ferrara.
Ore 17.30 Pausa
Ore 17.45 Ripresa dei lavori
Ore 20.00 Conclusione dei lavori


DOMENICA 30 MARZO


Ore 9.00 Il difensore della persona offesa e della parte civile
Avv. Vinicio NARDO – Presidente Camera Penale di Milano
Ore 11.15 Pausa
Ore 11.30 Conclusioni delle indagini preliminari e strategie difensive
Avv. Prof. Vincenzo MAIELLO - – Foro di Nola – Giunta UCPI
Ore 13.30 Pausa
Ore 14.00 Il difensore e l’incidente probatorio
Avv. Carmelo PELUSO – Presidente del Consiglio Camere Penali
Ore 16.30 Conclusione dei lavori

martedì 18 marzo 2008

LA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE E IL NODO DELLA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE NELLA UE.

LE NUOVE FRONTIERE COMUNITARIE
DI TUTELA PENALE.
LA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE E IL NODO DELLA PROTEZIONE DELL’AMBIENTE NELLA UE.


2-1 GLI OBBLIGHI COMUNITARI DI TUTELA PENALE: LA SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE (C-176/03).

Con la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee del 13.09.2005 n. C-176/03 e‘ stata annullata la Decisione-Quadro 2003/80/GAI, relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale. L’annullamento vi e’ stato per violazione del principio di indivisibilita’ sancito dall’art.47 Tue.
Infatti, secondo la sentenza in commento, la Decisione-Quadro avrebbe sconfinato nelle competenze che l’art.175 Tce attribuisce alla Comunita’ atteso che la tutela dell’ambiente costituisce obiettivo normativo essenziale per la Comunita’. L’art. 2 Tce dispone che la Comunita’ Europea ha il compito di promuovere un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualita’ di quest’ultimo; l’art.174 Tce sancisce la politica ambientale della Comunita’ Europea conferendole l’obiettivo di perseguire la salvaguardia, la tutela ed il miglioramento della qualita’ dell’ambiente, la protezione della salute umana, l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali.
Nonostante l’ampia sfera di azione attribuita alla competenza della Comunita’ Europea in materia ambientale, la tutela penale del bene giuridico ambientale pareva pacificamente attribuita, soltanto in via di previsione dei principi guida per gli Stati membri Ue, alla competenza programmatica-politica della Unione Europea. Nella prospettiva di una stretta cooperazione tra le autorita’ giudiziarie e di polizia dei paesi membri Ue e nell’ottica di un sensibile riavvicinamento delle normative degli Stati membri in materia penale (art.29 Tue), l’art.34 Tue attribuisce al Consiglio la competenza ad adottare Decisioni-Quadro per la armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.
Le Decisioni-Quadro sono vincolanti per gli Stati membri quanto al risultato da ottenere, salva restando la competenza delle autorita’ nazionali in merito alla forma ed ai mezzi; le Decisioni-Quadro, soprattutto, non hanno e non possono avere efficacia diretta.
Dalla introduzione del c.d. Terzo Pilastro dell’Unione la materia penale veniva vagliata dal Consiglio della UE soltanto in via programmatica secondo il metodo della predisposizione di principi base. Cosi’ per la protezione dell’ambiente era stata adottata Decisione-Quadro 2003/80/GAI.
La DQ e’ stata annullata dalla sentenza sopra evidenziata che apporta, per quanto concerne i profili di maggiore interesse, delle innovazioni sostanziali nella suddivisione dei compiti normativi degli organi comunitari. Gli organi comunitari, nelle materie loro attribuite dal Tce, possono adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri allorche’ l’applicazione di misure sanzionatorie penali, effettive, proporzionate e dissuasive, da parte delle competenti autorita’ nazionali costituisca una misura indispensabile di lotta contro le violazioni ambientali. Nella scia di tale ragionamento si e’ giunti a sostenere che la Commissione Europea, nell’ambito delle competenze attribuitele dal Tce, abbia la facolta’ di obbligare uno Stato membro ad imporre sanzioni penali al livello nazionale qualora cio’ risulti necessario ai fini del raggiungimento di un obiettivo comunitario.
La Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee, sebbene affermi che in via di principio la legislazione penale non rientra nelle competenze della Comunita’, si contraddice dal momento che afferma che il legislatore comunitario puo’ adottare provvedimenti in relazione al diritto penale degli Stati membri, provvedimenti necessari a garantire la piena efficacia delle norme che emana nelle materie di sua stretta competenza.
Pertanto, a fronte di misure quali la Decisione-Quadro che “invita” gli Stati membri ad adottare sanzioni di natura penale, con il dictum della Corte di Giustizia si attribuisce alle Istituzioni Comunitarie, in particolare alla Commissione Europea, la potesta’ di adottare provvedimenti e quindi, in astratto, di prevedere specifiche e dettagliate fattispecie incriminatrici.
E’ evidente il contrasto con l’art. 25 Cost. ed il suo corollario della riserva assoluta di legge in materia penale. La sentenza in commento avrebbe ammesso o meglio imposto alla Comunita’ Europea, ed attraverso gli strumenti propri della stessa, ossia regolamento e direttiva, obblighi di tutela penale degli interessi e beni di rilevanza strettamente comunitaria.
Cosi’, proprio in virtu’ del fatto che l’ambiente rientra ex art.174 Tce tra le competenze comunitarie, e’ stata gia’ prodotta una proposta di direttiva comunitaria relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale.
Vale la pena evidenziare che l’ “imposizione” degli obblighi di tutela comunitaria muta, nello scenario delle fonti di diritto comunitario, la gerarchia nell’utilizzazione dello strumento piu’ valido di contrasto agli illeciti penali. Dalla Decisione Quadro, strumento principe del Terzo Pilastro previsto dall’art.34 Tue, si passa a quello molto piu’ pregnante ed invasivo della direttiva o, probabilmente nel prossimo futuro, del regolamento.
Tale modificazione sostanziale creera’ nuovi dubbi sulle capacita’ di primazia del diritto comunitario su quello nazionale atteso che in una ipotesi siffatta, e limitando l’osservazione al diritto penale nazionale italiano, lo strumento impositivo della direttiva urta con il principio di legalita’ e con il suo corollario della riserva assoluta di legge. In tale ottica si dovrebbe chiarire, ulteriormente, quali siano i rapporti tra l’art.117 Cost. Ital. e l’intero comparto delle fonti nazionali in materia penale. Si ricorda, a titolo esemplificativo, che la direttiva impone obblighi di attuazione molto piu’ pregnanti di quelli derivanti da una Decisione Quadro, da molti ritenuta una mera condivisione di intenti; e che, se si dovesse passare ad utilizzare lo strumento della direttiva self-executing o del regolamento, l’incidenza sul diritto penale nazionale sarebbe diretta.
Da fonti di eterointegrazione del precetto penale gli strumenti comunitari diverrebbero strumenti di normazione primaria.

2-2 DIRITTO COMUNITARIO E PRINCIPIO DI LEGALITA’ IN MATERIA PENALE.

Al diritto comunitario e’ unanimemente riconosciuta la primazia sul diritto nazionale dei singoli Stati membri della UE. In Italia gli artt. 11 e 117 Cost., nel prevedere limitazioni di sovranita’ necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, sono la fonte normativa della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale. Il diritto comunitario, stante la sua dimensione sovranazionale prevale, quindi, sul diritto interno degli Stati membri UE quantomeno nell’obbligare gli stessi Stati a conformare il proprio diritto alle imposizioni legislative dettate dal legislatore comunitario, pena la violazione della c.d. fedelta’ comunitaria e l’irrogazione di sanzioni a quegli Stati poco attenti alle richieste del diritto comunitario.
Cio’ posto, va sottolineato che la primazia del diritto comunitario e l’apertura del sistema giuridico interno a fonti di matrice comunitaria non e’ principio incondizionato, perlomeno nel sistema costituzionale italiano. Infatti, nel campo penale, vige il principio di legalita’ –art.25 Cost.- ed il suo corollario della riserva assoluta di legge, che, in buona sostanza, assicurano che la produzione della normativa a carattere penale sia di derivazione diretta dal corpo elettorale e che abbia quindi una legittimazione democratica quanto alla produzione. In altre parole fonte del diritto penale puo’ essere soltanto una legge dello Stato italiano, oppure, come noto, un atto avente forza di legge (decreto legge e decreto legislativo), e non potra’ mai rinvenirsi una valida fonte nella matrice europeista e nei provvedimenti di normazione comunitaria. Le fonti normative c.d. derivate – ossia i regolamenti, le direttive e le raccomandazioni – provengono dal Consiglio e dalla Commissione che sono organi privi di una legittimazione democratica diretta, in quanto sono organi non elettivi. Questa considerazione sgombra il campo circa la perplessita’, sollevata in dottrina, che la Comunita’ Europea possa avere una propria competenza in materia penale: e’ lo stesso Trattato Istitutivo della Comunita’ (Tce) ad escludere siffatta competenza. La normazione penale costituisce, a tutt’oggi, una prerogativa esclusiva dello Stato italiano.
Cio’ non esclude che il diritto comunitario incida ugualmente sul diritto penale nazionale potendo generare certamente una espansione dello stesso. La nascita di beni giuridici strettamente comunitari (valori tutelati dalla Comunita’, aventi valore sovranazionale) e l’esigenza di disciplinare in maniera armonizzata alcune materie di competenza della Comunita’ hanno indotto una progressiva espansione del diritto penale nazionale. Le scelte di politica legislativa della Comunita’, lungi dall’essere direttamente incidenti sulle singole scelte di tutela penale effettuate dal legislatore interno, hanno, tuttatavia, un forza espansiva indiretta e riflessa: la produzione legislativa della Comunita’, anche se inidonea a creare il precetto penale e la sanzione per la sua violazione, puo’ esplicare un incidenza espansiva od anche restrittiva sul campo del penalmente rilevante per il diritto interno.
Si avra’ una efficacia espansiva nelle ipotesi in cui l’incidenza del diritto comunitario sull’ambito operativo di singole fattispecie penali avvenga attraverso il c.d. modello dell’assimilazione che implica una equiparazione, sul piano della salvaguardia, tra il bene giuridico nazionale ed un corrispondente bene giuridico tutelato da una fonte comunitaria. Si pensi alle norme a tutela del bilancio comunitario, alla proliferazione di fattispecie penali, in Italia, a tutela degli interessi economici della Comunita’ (cfr. artt. 640 bis e 316 ter c.p.): queste fattispecie penali sono una dilatazione delle norme gia’ esistenti e che tutelavano interessi propri dello Stato interno. C’e’ stato chi ha sottolineato come questa forma di dilatazione, attraverso la assimilazione di tutela del bene giuridico di fonte comunitaria, abbia in realta’ introdotto, indirettamente, una potesta’ legislativa in capo all’organo comunitario che abbia diretta incidenza nel diritto interno; tale pericolo sembra maggiormente accentuato nell’ipotesi in cui la clausola di assimilazione sia contenuta in un regolamento comunitario, che come vedremo, ha diretta efficacia nel diritto interno degli Stati membri della UE. Tuttavia, in un caso siffatto, non sara’ possibile richiamare la clausola di assimilazione quando cio’ comporterebbe l’applicazione della fattispecie nazionale “dilatata” sino alla applicazione al caso singolo della analogia in malam partem. In tale caso lo sbarramento deriva dal principio di legalita’ e dalla frammentarieta’ delle modalita’ di aggressione e di tutela del bene giuridico: la assimilazione di tutela di un bene giuridico comunitario viola il divieto di interpretazione analogica in malam partem.
L’incidenza del diritto comunitario sul diritto penale nazionale non e’ soltanto estensiva della punibilita’, seppur con i limiti individuati, ma nulla osta sull’ammissibilita’ di un effetto, a seconda dei casi scriminante, esimente o scusante, introdotto dalla fonte comunitaria. In tale caso la fonte comunitaria operera’ in bonam partem con la conseguenza di una sua conciliabilita’ con la riserva assoluta di legge ispirata, anch’essa, al principio del favor libertatis. Nel merito la fonte comunitaria incidera’ sul diritto interno attraverso la disapplicazione della norma interna contraria a quella prevista in sede comunitaria. Si pensi a quelle norme derivanti direttamente dal Tce, in quanto tali, norme dotate di legittimazione democratica, che hanno introdotto diritti nuovi per i cittadini della CE (si pensi al diritto di stabilimento, il diritto di soggiorno etcc.) e quindi reso incompatibili con gli stessi taluni reati posti a tutela proprio di quei diritti riconosciuti dalla Comunita’. Le fattispecie incriminatrici degli Stati membri non vengono abrogate per contrasto con la primazia del diritto comunitario ma vengono soltanto disapplicate.
Diversamente dall’ambito di operativita’ in bonam delle scriminanti, esimenti e scusanti di matrice europeistica, deve giungersi a diverse conclusioni quando l’intenzione delle fonti comunitarie sia di estendere la portata incriminatrice di una norma interna.
Allorche’ venga utilizzato lo schema della direttiva, attraverso la quale la Comunita’ sollecita, melius impone, l’adozione della norma penale interna, non si avra’ alcuna violazione del principio della riserva assoluta di legge atteso che la mancata adozione della legge interna comporta una mera violazione dell’obbligo di fedelta’comunitaria. Lo Stato membro UE e’ solo vincolato allo scopo prefissato dalla Comunita’ ma resta libero di poterlo attuare seguendo proprie forme e mezzi (art.249 Tce). Lo stesso discorso fatto per la direttiva, anche se con le complicazioni dovute alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee C-176/03, che come detto introduce nuovi e ben piu’ pregnanti obblighi di tutela comunitaria, vale per lo strumento della Decisione-Quadro che, in base all’art.34 del Tue, seppure considerata come condivisione di intenti politici-crminali da parte degli Stati membri UE, obbliga soltanto alla attuazione lasciando ampia discrezionalita’ al legislatore quanto ai mezzi e forme da adottare in concreto. In definitiva non sara’ possibile far valere a carico del singolo cittadino una direttiva comunitaria, anche se self-executing, che non abbia ricevuto trasposizione nell’ordinamento interno dello Stato membro UE.
Diverse caratteristiche ha invece la fonte comunitaria del regolamento. Come noto l’art.189 Tce prevede tale fonte normativa i cui caratteri sono da rinvenirsi nella obbligatorieta’, in ogni suo elemento, per tutti i cittadini. In altre parole il regolamento comunitario e’ direttamente applicabile negli Stati membri UE e produce i suoi effetti senza che sia necessario trasporlo in una normativa interna di attuazione. Si dve concludere che il regolamento non potra’ contenere in se’ il precetto o la sanzione penale, ma potra’ al piu’ ampliare il raggio applicativo della fattispecie incriminatrice attraverso il fenomeno di eterointegrazione del precetto penale. E’ questo il fenomeno per il quale l’elemento normativo della fattispecie viene ad essere colmato dal richiamo, non gia’ a diverse norme dell’ordinamento giuridico interno, bensi’ a norme di derivazione comunitaria, quali appunto il regolamento. L’eterointegrazione del precetto penale, in tal misura, non si discosta dal medesimo meccanismo di interazione, che e’ gia’ operante tra i diversi rami dell’ordinamento statale, e che ha la funzione di chiarire all’interprete il senso normativo di alcuni elementi del fatto tipico di reato. La natura assoluta della riserva di legge non esclude che alcuni elementi del fatto tipico vengano specificati da fonti diverse dalla legge. E’ frequente, data la proliferazione di regolamenti comunitari, che sia proprio la fonte europea ad integrare il precetto penale. L’integrazione del precetto penale deve pero’ essere limitata alla specificazione di taluni elementi normativi che abbisognano di spiegazioni tecniche e particolareggiate, altrimenti, indirettamente, rimetteremmo al regolamento comunitario la funzione di creare il precetto penale. Se il regolamento partecipa alla funzione precettiva della norma penale vi sarebbe un evidente contrasto con l’art.25 Cost. ed il corollario della riserva assoluta di legge, mentre diviene compatibile con i principi interni costituzionali se la norma regolamentare rivesta un ruolo meramente specificativo di elementi gia’ definiti nel loro quadro generale o comunque sia espressione di scelte di valore gia’ effettuate dal legislatore nazionale.
Il regolamento comunitario e’ anche fonte dell’obbligo di attivarsi per impedire l’evento ai sensi dell’art.40 cpv.?
Puo’ una fonte di matrice europeistica introdurre nell’ordinamento interno la posizione di garanzia propria del reato omissivo improprio?
La risposta affermativa a tale quesito sarebbe contrastante con l’opinione di coloro che non attribuiscono al regolamento alcuna funzione precettiva della norma penale. La fonte extrapenale integratrice della clausola aperta dell’art.40 cpv. non potrebbe rinvenirsi nel regolamento comunitario pena la violazione della riserva assoluta di legge. Non va dimenticato che se ammettessimo l’integrazione dell’art.40 cpv. ad opera del regolamento comunitario, quest’ultimo finirebbe per creare direttamente la fattispecie “estensiva” del reato omissivo improprio, senza che una legge dello Stato abbia conferito, quantomeno, un quadro normativo al cui interno possa spingersi il regolamento comunitario.
Caso diverso si avra’ se la fattispecie interna richiama specificamente la normativa comunitaria, attraverso la tecnica del rinvio. Il rinvio, in tale ipotesi, e’ assimilabile alla norma penale in bianco che attribuisce, non ad una fonte secondaria interna, bensi’ al regolamento comunitario la determinazione del precetto penale, quanto ai suoi elementi tecnici.

LA PROPOSTA DI DIRETTIVA DEL 09.02.2007 DI PROTEZIONE DELL’AMBIENTE ATTRAVERSO IL DIRITTO PENALE.

In ottemperanza a quanto statuito dalla Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee con la sentenza del 15 settembre 2005 (causa C-176/03), il 09.02.2007 e’ stata presentata dalla Commissione europea una proposta di direttiva volta ad assicurare protezione all’ambiente attraverso una normativa comune europea. La Commissione ha preso atto della circostanza che una seria politica ambientale comunitaria deve necessariamente ricollegarsi alla predisposizione di misure minime di tutela dell’ambiente che siano comuni ai paesi membri della UE.
L’Italia, dal suo canto, non ha ancora previsto una tutela penale codicistica dell’ambiente, limitandosi, nel tempo, a creare delle tipologie di reato poco consone al grave fenomeno dell’inquinamento ambientale, dotate di sanzioni del tutto insufficienti e poco deterrenti.
La proposta di direttiva parte dalla considerazione che le sanzioni previste per la violazione dei precetti a tutela dell’ambiente devono essere adeguate, efficaci e dissuasive. Il reato ambientale, infatti, oltre ad avere effetti devastanti sull’ambiente, genera un grave danno alla salute umana, ed e’ proprio nell’ottica della duplice tutela, diretta dell’ambiente ed indiretta della salute, che la proposta i muove nella costruzione della direttiva.
I reati perseguibili in base alla direttiva saranno:
1) lo scarico, l’emissione o l’introduzione di una quantita’ di materie o radiazioni ionizzanti nell’atmosfera, nel suolo o nell’acqua, che provochino la morte o gravi lesioni alle persone;
2) lo scarico, l’emissione o l’immissione illeciti di una quantita’ di materie o di radiazioni nell’atmosfera, nel suolo o nell’acqua, che provochino o possano provocare la morte o gravi lesioni alle persone, o nuocciano alla qualita’ dell’aria, del suolo o dell’acqua o al patrimonio della fauna o della flora;
Dalla lettura di queste due fattispecie si evidenzia un dato incontrovertibile: la tutela dell’ambiente e’ finalizzata alla tutela della salute umana: il bene giuridico ambientale, solo nella seconda ipotesi, risulta oggetto di tutela principale ...o nuocciano alla qualita’ dell’aria, del suolo etc.....
In riferimento alla prima delle due fattispecie vi e’ da rilevare che il reato si consuma anche quando l’inquinamento ambientale non sia illecito, ma cio’ che integra il reato e’ la produzione di un danno grave alla salute delle persone. Viene quindi prevista una sorta di responsabilita’ oggettiva per la posizione rivestita da colui che immette nell’ambiente le materie inquinanti se ne derivi la morte o grave lesione alle persone.
Problematica appare la prova della colpa in capo al soggetto agente e del nesso causale tra l’inquinamento ambientale e la lesione alla salute umana. Sul punto la recente giurisprudenza italiana ha risolto il problema facendo confluire nel concetto di prevedibilita’ del danno cagionato la prova non solo della colpa ma anche, opinando in tal maniera, dello stesso nesso di causalita’.
Il nesso di causalita’ abbisogna, comunque, della prova che la introduzione della materia inquinante abbia concretizzato il rischio del verificarsi dell’evento dannoso.
Il reato de quo potra’ essere previsto tanto nella forma dolosa quanto nella forma colposa.
La seconda fattispecie, invece, a differenza della prima, prevede la illecita introduzione di materie inquinanti nell’ambiente e per tale via sanziona la violazione della regola cautelare quando cio’ comporta anche il mero pericolo di lesioni gravi alla salute umana. Tale fattispecie si caratterizza per essere costruita sul modello del reato di pericolo, quando l’inquinamento illecito possa provocare danni alla salute umana, e sul modello del reato di danno, quando invece si concretizza il danno alla salute umana o il danno all’ambiente o alle singole componenti dello stesso (aria, suolo, acqua, flora, fauna).
La proposta di direttiva prevede anche il reato di trattamento e traffico illecito di rifiuti pericolosi. Si sanziona infatti il trattamento illecito, ivi compreso l’eliminazione, lo stoccaggio, il trasporto, l’esportazione o importazione illecite, di rifiuti pericolosi, che provochino o possano provocare la morte o gravi lesioni alle persone, o danni rilevanti alla qualita’ dell’aria, del suolo o dell’acqua o del patrimonio della fauna e della flora.
Anche tale reato e’ finalizzato alla salvaguardia, in primis, del bene salute umana, per poi coincidere, in tutto, con la fattispecie di inquinamento ambientale illecito prospettato alla lettera b) della proposta di direttiva. Infatti, anche in tal caso, ci troviamo di fronte ad una fattispecie che contempla il trattamento illecito e il trasporto illecito di rifiuti pericolosi, con cio’ evidenziandosi che vi e’ violazione della regola cautelare posta a base del trattamento e trasporto del rifiuto pericoloso. Anche qui il proponente comunitario costruisce la fattispecie sia sullo schema del reato di pericolo “possano provocare” che sul modello del reato di danno “provochino” . Giova sottolineare che, soprattutto, nel caso del trasporto illecito di rifiuti, il pericolo deve essere inteso nella sua forma astratta e non in quella concreta, atteso che appare improbabile la prova della concretizzazione del rischio nell’ipotesi di rifiuti, che in base alla presunzione iuris et de iure, devono essere considerati lesivi dell’ambiente.
E’ prevista inoltre, in materia nucleare, una specifica fattispecie che sanziona: la fabbricazione, il trattamento, lo stoccaggio, l’impiego, il trasporto, l’esportazione o l’importazione illecite di materiali nucleari o di altre sostanze radioattive pericolose, che provochino o possano provocare, fuori da questo impianto, la morte o gravi lesioni alle persone, o danni rilevanti alla qualita’ dell’aria, del suolo o dell’acqua o al patrimonio della fauna e della flora.
Le pene previste si dividono a seconda che il reato sia stato doloso o colposo. La pena prevista per quei fatti di inquinamento che hanno provocato danni soltanto ambientali, per negligenza grave, vanno da 1 a 3 anni di carcere.
La pena prevista per il caso in cui alla negligenza grave sia seguito un danno grave anche alla salute delle persone va dai 2 ai 5 anni di carcere.
L’ipotesi dolosa e’ invece sanzionata con pene che vanno dai 5 ai 10 anni di carcere.


2.4 EFFICACIA DELLA DECISIONE-QUADRO: LA SENTENZA PUPINO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA’ EUROPEE DEL 16.06.2005 (C-105/03)

Nel pronunciarsi in merito ad questione pregiudiziale sollevata dal GIP presso il Tribunale di Firenze, in merito alla interpretazione degli artt.2, 3 e 8 della Decisione-Quadro 2001/220/GAI relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, la Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee ha chiarito le finalita’ dello strumento “normativo” della Decisione-Quadro e delle conseguenze sulla ‘ordinamento giuridico degli Stati membri della UE.
Il primo principio statuito dalla Corte e’ quello secondo il quale, al pari delle direttive comunitarie, anche la Decisone-Quadro impone all’autorita’ giudiziaria dello Stato membro UE una interpretazione della propria normativa conforme al dettato della D-Q. Si statuisce, in altre parole, che la Decisione-Quadro esplica effetti nell’ordinamento interno nonostante la propria fonte normativa sia da rinvenirsi nell’art.34 lett.b del Trattato UE. Tale efficacia di conformazione, pero’, non puo’ comportare una interpretazione contra legem della normativa nazionale ne’ puo’ comportare un aggravamento della posizione di un singolo nell’ambito di un procedimento penale.
Il fatto che le competenze interpretative della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee siano meno estese quando si occupa dell’analisi delle norme del Trattato UE (cfr. art.35 Tue) rispetto a quelle attribuitele dalla CE, non osta a che le Decisioni-Quadro vincolino ad una interpretazione conforme della normativa interna. Applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo e’ tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della Decisione-Quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e conformarsi cosi’ all’art.34, lett.b) Tue.
Permangono, tuttavia, differenze con lo strumento della direttiva: pur dovendo ammettere un sostanziale annullamento di differenze tra i due strumenti e la comunitarizzazione del Terzo Pilastro, nel cui ambito rientra la cooperazione giudiziaria e di polizia della Ue, si sottolinea come l’aver escluso una efficacia diretta della Decisone-Quadro e l’averle attribuito una mero effetto di conformazione interpretativa lascia permanere una importante differenza di cogenza tra i due sistemi. Dall’affermazione dell’obbligo di interpretazione conforme non possono trarsi indicazioni immediate circa l’efficacia dell’atto.
Tale sentenza solo apparentemente si pone in contrasto con quella analizzata nel par. 2-1 che ha annullato la D-Q 2003/80/GAI e che ha posto obblighi di tutela comunitaria penale in capo alla Comunita’ Europea. Infatti la sentenza Pupino va letta nell’ottica della comunitarizzazione del Terzo Pilastro e di una progressiva attribuzione di competenze penali alla CE attraverso l’assorbimento di tutta la materia, sino ad oggi intergovernativa, della cooperazione in materia penale e disciplinata nel Trattato UE.
Alla luce di queste considerazioni la Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee, nel sottolineare che la Decisione-Quadro deve essere interpretata in maniera tale che siano rispettati i diritti fondamentali, tra i quali quello ad un processo equo, cosi’ come sancito dall’art.6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, statuisce la possibilita’ per il giudice del rinvio di autorizzare l’incidente probatorio per l’ascolto immediato dei minori vittime dei maltrattamenti. Spetta al Giudice del rinvio valutare, nel merito, che l’ascolto dei minori all’esterno del dibattimento non pregiudichi il diritto dell’imputata a godere di un processo equo. Per tale via, le norme della Decisione-Quadro, relative alla protezione delle vittime del reato, devono essere interpretate nel senso di garantire ai minori un livello adeguato di tutela, e quindi ad esempio anche attraverso il ricorso al loro ascolto fuori udienza, sempre che sia rispettato il diritto dell’imputata ad una difesa piena e ad un processo equo.

di

Andrea SATTA
,
avvocato - dottore di ricerca nella Università degli Studi di Salerno.

Note

Cfr. punto 21 sentenza della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee:...la Commissione menziona, in particolare, due atti comunitari che prevederebbero l’obbligo per gli Stati membri di comminare sanzioni di natura necessariamente penale, ancorche’ tale qualificazione non sia stata espressamente utilizzata (v. art.14 della direttiva del Consiglio 10.06.1991, 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attivita’ illecite, e artt. 1-3 della direttiva del Consiglio 28.11.2002, 2002/90/CE, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali.
Sul punto in dottrina cfr. BARTONE, Il Diritto Penale Italiano. Sistema e Valori. Giurisprudenza ed Ottica Europea, Milano, 2007;AA. VV., Diritto penale europeo e ordinamento italiano, Milano 2006; PACIOTTI-AMATO (a cura di), Verso l’Europa dei diritti – Lo Spazio europeo di liberta’, sicurezza e giustizia, Bologna, 2005; CANESTRARI-FOFFANI (a cura di), Il diritto penale nella prospettiva europea, Milano 2005; MUSACCHIO, Diritto Penale dell’Unione Europea – Questioni controverse e prospettive future, Padova, 2005; DE AMICIS-IUZZOLINO, Lo spazio comune di liberta’, sicurezza e giustizia nelle disposizioni penali del Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, in Cass. Pen. 2004, 3067;.

Cfr. sent. 5 marzo 1978 della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee, in Giur. Cost., 1978, I, “le disposizioni del Trattato e gli atti delle Istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche –in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri- di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero in contrasto con norme comunitarie”

Cfr. PEDRAZZI, L’influenza della produzione giuridica della CEE nel diritto penale, in AA.VV., L’influenza del diritto europeo sul diritto italiano, Milano, 1982; RIONDATO, Competenza penale della Comunita’ europea, Padova, 1996; TIEDEMANN, Diritto comunitario e diitto penale, in riv. trim. dir. pen. econ., 1994; GRASSO, Comunita’ Europee e diritto penale, Milano, 1989; SGUBBI, Diritto penale comunitario, in Dig. pen., IV, 1990.

Cfr. sentenza C-243/01 del 6 novembre 2003 della Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee con la quale si riconosce al diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, cosi’ come disciplinati dagli artt. 43 e 49 Tce ( diritto per ciascun cittadino della UE di impiantare o gestire una attivita’ imprenditoriale in qualsiasi territorio UE), efficacia esimente del reato previsto dall’art.4 della legge 401/1989, con il quale si sanziona l’attivita’ di ricevimento scommesse sportive in assenza delle prescritte autorizzazioni amministrative. La Corte di Giustizia ha decretato che a prevalere sia la norma comunitaria e cio’ comporta la disapplicazione della normativa nazionale ad essa contrastante, attesa la prevalenza del nuovo diritto comunitario sulle restrizioni nazionali. Per la Cassazione, pronunciatasi a Sezioni Unite (cfr. Cass. Pen. Sez. Un. 23272/2004), prevale, invece, la normativa italiana posto che la stessa e’ diretta a tutelare il bene giuridico dell’Ordine Pubblico e le esigenze di sicurezza per contrastare la criminalita’ organizzata nel recepimento di somme di danaro. La normativa italiana si propone cioe’ di canalizzare la domanda e l’offerta di gioco in circuiti controllabili al fine di prevenire la possibile degenerazione criminale. In occasione di tale pronuncia la Cassazione a Sezioni Unite ribadisce la discrezionalita’ politica del legislatore nazionale nella disciplina penale, sottratta alla valutazione del giudice e alla Cote di Giustizia delle Comunita’ Europee, la quale avrebbe solo il monopolio interpretativo del diritto comunitario, ma non avrebbe alcuna competenza sul diritto nazionale e pertanto non potrebbe procedere alla valutazione o alla qualificazione della fattispecie concreta e delle relative norme di diritto interno.

Cfr. Cass. Pen .Sez. Un. n.4675/06 ha stabilito che ai fini dell’elemento soggettivo della colpa, occorre accertare, con valutazione ex ante, la prevedibilità dell’evento, giacché non può essere addebitato all’agente di non avere previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere. Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con il costruire una forma di responsabilità oggettiva. Quanto all’apprezzamento del parametro della prevedibilità, con specifico riguardo alla individuazione del momento cui occorre fare riferimento per pretendere che l’agente riconoscesse i rischi della sua attività e i potenziali sviluppi lesivi, è da ritenere che l’agente abbia in proposito un obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni scientifiche, anche se non ancora patrimonio comune ed anche se non applicate nel circolo di riferimento, a meno che si tratti di studi isolati ancora privi di conferma. Quanto al contenuto della prevedibilità, è da ritenere, inoltre, che vi rientri anche la sola possibilità per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni, sia pure indistinta ma potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare più sicure regole di prevenzione. In altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilità, deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso, quale si è concretamente verificato in tutta la sua gravità ed estensione.
Piu’ specficamente la Cassazione analizza il contenuto della colpa ascrivibile all’agente sostenendo che ai fini dell’elemento soggettivo della colpa e, in particolare, dell’apprezzamento della prevedibilità dell’evento dannoso rispetto alla condotta dell’agente, ossia quanto alla rappresentazione in capo all’agente della potenzialità dannosa del proprio agire, da intendere come rischio o pericolo delle conseguenze lesive della propria condotta, è da ritenere che questa possa riconnettersi anche alla probabilità o anche solo alla possibilità (purché fondata su elementi concreti e non solo congetturali) che queste conseguenze dannose si producano, non potendosi limitare tale rappresentazione alle sole situazioni in cui sussista in tal senso una certezza scientifica. Ne consegue che, allorquando si discuta di prevenzione di rischi alla salute, l’obbligo prevenzionale a carico dell’agente di eliminare o ridurre tali rischi sussiste anche solo laddove la mancata adozione delle cautele preventive possa indurre il dubbio concreto della verificazione dell’evento dannoso. Non può infatti limitarsi l’obbligo preventivo ai rischi riconosciuti come sussistenti dal consenso generalizzato della comunità scientifica e alla adozione delle misure preventive generalmente praticate.
Ai fini dell’elemento soggettivo della colpa, per potere formalizzare l’addebito colposo, non basta soffermare l’attenzione sulla violazione della regola cautelare, ma è necessario verificare che questa sia diretta ad evitare proprio il tipo di evento dannoso verificatosi. Diversamente l’agente verrebbe punito per la mera infrazione anche se la regola cautelare aveva tutt’altro scopo, cioè verrebbe sanzionato il mero versari in re illicita con la previsione di una sorta di responsabilità oggettiva. A tal fine occorre procedere a verificare la cosiddetta “concretizzazione del rischio” (o “realizzazione del rischio”), che si pone sul versante oggettivo della colpevolezza, come la prevedibilità dell’evento dannoso si pone invece più specificamente sul versante soggettivo. La relativa valutazione deve prendere in considerazione l’evento in concreto verificatosi ed è diretta ad accertare se questa conseguenza dell’agire rientrava tra gli eventi che la regola cautelare inosservata mirava a prevenire. In proposito, dovendosi precisare che la prevedibilità dell’evento dannoso va accertata con criteri ex ante e va valutata dal punto di vista dell’agente (non di quello che ha concretamente agito, ma dell’agente modello) per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell’evento; il criterio della concretizzazione del rischio, invece, è una valutazione ex post che consente di avere conferma, o meno, che quel tipo di evento effettivamente verificatosi rientrasse tra quelli che la regola cautelare mirava a prevenire, tenendo conto che esistono regole cautelari per così dire “aperte” nelle quali la regola è dettata sul presupposto che esistano o possano esistere conseguenze dannose non ancora conosciute, ed altre ”rigide”, che prendono in considerazione solo uno specifico e determinato evento.
A ben vedere, prevedibilità e concretizzazione riguardano il medesimo problema, anche se da punti di vista differenti. La prevedibilità viene valutata ex ante facendo riferimento all’agente modello, mentre la concretizzazione del rischio richiede una verifica ex post sul rapporto tra evento concreto e norma cautelare: in altri termini, mentre la prevedibilità è prevedibilità in astratto, la concretizzazione è prevedibilità in concreto, trattandosi di una prevedibilità oggettiva che va verificata a posteriori.
Si tratta del procedimento penale instaurato a carico di Maria Pupino, insegnante di scuola elementare, alla quale viene contestato di essersi resa responsabile del reato di abuso dei mezzi di disciplina e di lesioni aggravate nei confronti di alcuni dei suoi alunni di eta’ inferiore, all’epoca dei fatti, degli anni cinque. Nell’evidenziare che il combinato disposto degli artt. 392, 392 n.1bis e 398 n.5bis c.p.p. consente al GIP la possibilita’ di autorizzare l’incidente probatorio relativo all’ascolto dei minori infrasedicenni, il Giudice per le Indagini Preliminari chiedeva rigettarsi la richiesta del Pubblico Ministero di ascoltare anticipatamente al dibattimento i minori per contrasto della detta richiesta con gli artt. 2, 3 e 8 della Decisione-Quadro 2001/220/GAI. Il GIP chiedeva alla Corte di Giustizia delle Comunita’ Europee di pronunciarsi sulla interpretazione da dare alla detta D-Q.

cfr. punti 44 e 45 della sentenza “Pupino” ....l’obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una Decisione-Quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e non retroattivita’. Questi principi ostano a che il detto obbligo possa condurre a determinare od aggravare, sul fondamento di una Decisione-Quadro e indipendentemente da una legge adottata per l’attuazione di quest’ultima, la responsabilita’penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni.

Il mandato di arresto europeo .

Il mandato di arresto Europeo

significativo traguardo nell’integrazione Comunitaria

Emanuele Lamberti

Avvocato, Foro di Genova

Con il contributo e la collaborazione di:

Maria Montemagno

Avvocato, Foro di Genova

Alessandro Torri

Dottorando, Univerersità di Genova

Sommario: I. Dalla collaborazione degli stati dell’Unione Europea al MAE;

      II. Della consegna dei ricercati o condannati nella UE;

      III. Della legge 12/4/2005 n. 69;

      IV. Del MAE e dell’estradizione;

      V. Dell’applicazione del MAE: attualità e prospettiva

§ 1 – Dalla collaborazione degli stati dell’Unione Europea al MAE

Il principio costituzionale di conformazione dell’ordinamento giuridico italiano alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 C.) ha trovato una significativa attuazione con la pubblicazione sul n. 98/05 della G.U. della legge 69/2005, recante “disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo ed alle procedure di consegna tra gli Stati membri”.

La novella è frutto di una evoluzione giuridica, sociale e politica dell’Unione Europea, progettata alla fine della seconda guerra mondiale per scongiurare ulteriori conflitti fra gli Stati membri ed auspicata da tutti i loro rappresentanti1, che ha avuto inizio il 25 Marzo 1957 quando si istituì in Roma la CEE2, ( la Comunità Economica Europea) che estendeva le libertà della Ceca (Comunità Economica Carbone Acciaio, istituita il 18 Aprile 1951 a Parigi) a tutti i beni, muovendosi verso la creazione di una “unione doganale”3.

È iniziato, da quel primo passo, si è celebrato recentemente il cinquantenario, un lento e difficile cammino verso l’integrazione europea4 la cui meta non è, neppure oggi, così vicina, infatti, da quella primavera del ’57 si è dovuto attendere il 7 Febbraio 1992, per formalizzare, con la stipula del trattato di Maastricht, l’impegno degli Stati membri ad una collaborazione Europea non basata solo su interessi puramente commerciali ma, fondata su tre settori d’intervento, i pilastri:

- il primo a tutela dei tradizionali interessi economici (CE),

- il secondo per una politica estera e sicurezza comune (PESC),

- il terzo per il coordinamento e la collaborazione in tema di giustizia ed affari interni (GAI)5.

Il 2 Ottobre 1997, con il trattato di Amsterdam, il terzo pilastro venne “rimodellato” trasferendo alcune sue competenze nel primo, (come la materia dei visti, degli asili e delle politiche di immigrazione), così da renderlo più specializzato e mirato alla cooperazione giudiziaria, di polizia, all’armonizzazione delle leggi penali, tanto da comportarne una diversa e più specifica denominazione: Cooperazione di Polizia e Giudiziaria in materia Penale (CPGP).

La volontà di dare esecuzione al terzo pilastro è stata stimolata da episodi di terrorismo che hanno sconvolto l’opinione pubblica mondiale ( gli attentati: alle Twin Towers l’11 Settembre 2001, alla stazione ferroviaria di Madrid l’11 Marzo 2003 e alla metropolitana di Londra il 7 Luglio 2005) e si è esplicitata attraverso:

  1. una collaborazione di polizia per la prevenzione dei reati più gravi e la ricerca dei condannati od indagati, con la realizzazione dell’Europol6 e del Sis, Sistema Informatico di Shengen7, nel quale le unità nazionali, che immettono dati su beni da sequestrare o persone ricercate, non solo ne sono responsabili, ma hanno altresì l’obbligo di fornire quei dati supplementari che possono essere richiesti all’unità centrale; da qui il nome Sirene (Supplementary information request at the national entry).

    Grazie a tale sistema qualsiasi agente di Polizia di un paese membro può richiedere informazioni supplementari riguardanti una persona iscritta nell’archivio Sis, ottenendo notizie maggiori rispetto a quelle già presenti nello stesso archivio.

    b. Una cooperazione fra autorità giudiziarie degli Stati membri, a tale scopo sono stati costituiti:

    b1. la Rete Giudiziaria Europea8, organismo che ha il compito di agevolare la cooperazione giudiziaria: in Italia il punto di contatto centrale è il Ministero della giustizia, ufficio II della direzione generale della giustizia penale, altri, in sede nazionale: il DNA (Direzione nazionale antimafia) ed il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), sono punti di contatto periferici quelli costituiti presso ciascuna Procura Generale;

    b2. l’Eurojust9: è una struttura alla quale partecipano Pubblici Ministeri, distaccati dai loro Stati membri, con lo scopo di10:

  • agevolare il coordinamento tra le autorità responsabili dell’azione penale;
  • prestare assistenza nelle indagini su casi di criminalità organizzata;
  • cooperare strettamente con la Rete giudiziaria.

    In particolare Eurojust è chiamata a svolgere un’azione di coordinamento e di impulso investigativo, finalizzata a facilitare le indagini o le azioni penali nel caso di indagini riguardanti due o più Stati, sia per evitare inutili sovrapposizioni, sia per massimizzare il patrimonio conoscitivo, investigativo ed operativo.

    c. il trattato di Tampere del 1999, con il quale si pervenne al reciproco riconoscimento delle sentenze pronunciate negli Stati membri, ribadito da quello di Nizza, del 26 Febbraio 2001, nel quale si è proceduto sulla strada della maggiore flessibilità ed efficacia delle procedure per il funzionamento delle istituzioni comunitarie11, adattandole all’Europa a 27 membri.

Il mandato d’arresto europeo che, lo si ribadisce, è fra le manifestazioni più significative della collaborazione in materia penale fra autorità giudiziarie dei paesi membri, ha quale presupposto sia il riconoscimento reciproco delle sentenze straniere, sia la cooperazione della polizia e delle autorità giudiziarie degli Stati membri.

In materia giudiziaria gli accordi di collaborazione fra i paesi della comunità si sono evoluti dal trattato internazionale di Bruxelles del 196812, che prevedeva la cooperazione giuridica in materia civile e commerciale, alla recente D.Q. n. 2002/584/GAI in tema di mandato di arresto europeo, particolarmente incisiva nella gestione di questioni penali.

§ 2 - Della consegna dei ricercati o condannati nella UE

La creazione del mercato unico europeo, la conseguente apertura delle frontiere interne e le crescenti libertà di movimento delle persone, hanno portato ad una maggiore aggressività ed estensività della criminalità, soprattutto se organizzata, rendendo inidoneo l’istituto dell’estradizione nei rapporti fra i paesi comunitari, comportando la necessità di realizzare più snelle modalità di consegna dei latitanti e dei ricercati.

In assenza di una Costituzione Europea, in stallo a seguito dei negativi risultati dei “referendum popolari di adesione” di Francia e Olanda, il modus operandi adottato dalla Comunità è stato quello di promulgare una decisione quadro per introdurre il Mandato d’Arresto Europeo (DQ) 2002/584/GAI, in esecuzione del disposto dell’art. 31 par. 1 lett. a) e b), art. 34 del trattato di Maastricht (T.U.E.), scelta legislativa obbligata che ha comportato la necessità per i singoli Stati membri di promulgare, a loro volta, leggi di ratifica per dare efficacia a tale istituto all’interno dei singoli Stati.

La decisione quadro, firmata dal Presidente del Consiglio M. Rajoy Breye, è formata da 35 articoli, divisi in quattro capi: principi generali, procedura di consegna, effetti della consegna, disposizioni generali e finali. La decisione contiene un preambolo, composto da “considerando”13, si tratta di 14 punti di natura programmatica ed esplicativa che sono applicabili dall’a.g. nazionale, vuoi direttamente, vuoi per l’interpretazione, l’ermeneusi delle leggi di ratifica dei singoli Stati, che dovrebbero conformarsi alle disposizioni comunitarie, cosa che si è verificata con qualche “distinguo”, sebbene la D.Q.:

  • obbligasse alla consegna del ricercato al richiedente;
  • imponesse ai giudici nazionali, nella interpretazione delle norme interne, di uniformarsi alle disposizioni della decisione quadro”, secondo l’insegnamento della sentenza 16/6/2005 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (caso Pupino, v. Guida al Diritto n. 26/2005);
  • prevedesse, pur riconoscendo l’autonomia delle normative nazionali, la possibilità di una verifica, dei competenti organi della U.E. (Corte di Giustizia delle Comunità Europee), sull’esatto adempimento di quanto imposto dalla DQ, (come nel caso di devoluzione di una richiesta di interpretazione pregiudiziale);
  • presupponesse uno spazio giudiziario comune, ove le decisioni delle autorità giudiziarie nazionali circolassero liberamente sulla base di un riconoscimento reciproco fondato su principi di civiltà giuridica condivisi (in applicazione degli accordi di Tampere del 1999).

In particolare si segnalano alcune delle significative discrasie fra la decisione quadro e la legge italiana di recepimento, che meglio in seguito verrà descritta:

  • i motivi di rifiuto: la DQ ne prevede di obbligatori e di facoltativi (artt. 3 e 4 DQ); la legge italiana di attuazione li prevede tutti obbligatori;
  • fra le condizioni o presupposti per la consegna si ricorda che:

      - l’art. 6 l. 69/2005 prevede che non si dia luogo alla consegna se non viene trasmesso, insieme con il MAE, il provvedimento restrittivo nazionale, mentre lo stesso adempimento non è previsto dalla DQ;

    • l’art.17 co. 4 della legge italiana prevede che non si dia luogo alla consegna in assenza di gravi indizi di colpevolezza, condizione non prevista dalla DQ, che esclude l’esame sugli indizi di colpevolezza, essendo tale accertamento rimesso al giudice del fatto (cfr. art. 705 co. 1 e 696 c.p.p.);
    • così come pure prevede il rifiuto in presenza di cause di giustificazione (v. art. 18 co. 1 lett. b e c l.69/2005) di cui non si parla nella decisione quadro.
  • Nella DQ non è previsto quanto disposto dalla legge italiana di recepimento, nel caso di richiesta di consegna di un cittadino: la Corte d’Appello competente può inserire la condizione del (ri)trasferimento in Italia del consegnato per scontare l’eventuale condanna. Ove, invece, la richiesta poggi su una condanna definitiva, la consegna potrà essere rifiutata a condizione che la pena venga eseguita nello Stato. (art. 18 lett. r);
  • anche la doppia incriminazione è prevista nella legge di recepimento ma non nella DQ, tuttavia tale preclusione14 non rappresenta un reale motivo di contrasto fra le due norme perché, a ben guardare, i reati elencati nella lista delle 32 categorie che appaiono nell’art. 2 paragrafo 2 della DQ (per gli altri resta tale verifica) costituiscono per l’Italia, come per tutti gli altri Stati membri dell’UE, ipotesi criminose, secondo una valutazione operata ex ante. Naturalmente il giudice dello Stato dell’esecuzione dovrà verificare l’esatta riconducibilità della fattispecie in esame ad uno dei reati di cui alla lista. Il punto, comunque, è assai controverso in dottrina.

§ 3 – Della legge 12/4/2005 n. 69

§ 3.1 – dell’art. 696 C.p.p.

La consegna dei latitanti e dei ricercati, nell’ordinamento italiano, è regolata dal disposto dell’art. 696 C.p.p., che prevede procedure diverse a seconda della natura dei “rapporti internazionali” con il paese richiedente o presso il quale si trova il ricercato:

  • se si tratta di uno Stato Membro della UE trova applicazione la legge n.69/’05;
  • se con il Paese interessato vigono convenzioni o trattati internazionali si applicano questi ultimi:

      a) con gli Stati legati dalla convenzione europea del 1957, come ad es. la Svizzera, l’estradizione è regolata da tale convenzione;

      b) con quelli legati da trattati bilaterali, come ad es. gli USA, si applicano questi ultimi;

  • con i Paesi con i quali non vi è accordo internazionale, come ad es. l’Iran, trovano attuazione le disposizioni del libro XI del C.p.p..

§ 3.2- Legge 69/2005 Titolo I – Disposizioni di principio

La legge 12 aprile 2005 n. 69 sul MAE, che forma oggetto della nostra trattazione, è stata pubblicata in G.U. n. 98 solo il 29 aprile 2005 perché lo Stato Italiano è stato l’ultimo fra i Membri che allora componevano l’UE a recepire la decisione quadro (D.Q.), che è ben di tre anni precedente (13/6/’02).

L’esame della novella (si tratta di 40 articoli, divisi in tre titoli: disposizioni di principio, norme di recepimento interno e disposizioni finali e transitorie) presuppone, naturalmente, un costante riferimento alla DQ, alle scelte degli altri Paesi comunitari, ai principi fondamentali a cui si ispira il nostro ordinamento ed in particolare alle norme del libro XI del C.p.p. (che completa le carenze della legge 69/2005, considerata lex specialis in relazione al libro predetto e comunque al Codice di Procedura Penale, lex generalis.)

  • Nel titolo primo si manifesta la volontà dell’Italia di dare esecuzione al mandato d’arresto europeo15, cioè alle “decisioni giudiziarie emesse da uno Stato membro dell’Unione Europea in vista dell’arresto di una persona al fine dell’esercizio di funzioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza” (art.1).
  • L’esecuzione del MAE è, tuttavia, subordinata al rispetto sia dei principi garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU16), che di quelli della Costituzione dello Stato (diritti fondamentali, di libertà, di giusto processo); nel rispetto di tali direttive, il giudice procedente dovrà e potrà chiedere idonee garanzie allo Stato membro di emissione a tutela dei diritti del cittadino e dello straniero richiesto ed, in caso di grave o persistente violazione, dovrà rifiutare la consegna (art.2).
  • Altro limite posto all’esecuzione del MAE è quello dell’esclusione dei reati “bagatellari”, cioè quelli per i quali è prevista, nella legislazione dello Stato emittente, una pena edittale inferiore a 12 mesi e, in caso di condanna qualora questa sia inferiore ai quattro mesi.
  • Ed ancora non tutti i reati possono formare oggetto di richiesta di consegna, salvo quanto si dirà in seguito a proposito dell’art. 7 della legge in esame, ma solo quelli elencati ai capi 1 e 2 dell’art.2 della DQ n.2002/584/GAI17, che si ricorda erano già indicati nel comma secondo dell’art. 29 TUE.
  • La Commissione Europea potrebbe inserire nuovi reati nell’elenco di quelli per cui è ammesso il MAE ma, in questo caso, la norma in esame prevede il vaglio del Parlamento italiano (principio della riserva parlamentare), al quale la modifica dovrà essere trasmessa e relazionata dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art.3).
  • Le disposizioni di principio terminano individuando il Ministro di Giustizia quale autorità centrale per l’assistenza alle Autorità Giudiziarie competenti; dunque al Ministro spetta la trasmissione e la ricezione, condotte di natura amministrativa, dei mandati che, senza indugio, devono essere comunicati ai giudici procedenti, salvo accordi internazionali che permettono contatti diretti fra Autorità Giudiziarie (art.4).
  • La legge poi, seguendo l’ordine della DQ, al titolo II tratta in tre diversi capitoli, della procedura passiva di consegna, di quella attiva, delle misure reali nonché delle spese.

§ 3.3 – Legge 69/2005 Titolo II – Recepimento interno

- La consegna passiva (3.3.1)

La richiesta di consegna allo Stato italiano ha sempre inizio con l’emissione di un mandato d’arresto europeo che dovrà pervenire, tradotto in lingua italiana, (settimo comma art. 6 legge 69/2005) e che dovrà contenere, oltre ai requisiti propri di qualsiasi misura cautelare (art. 292 C.p.p. in tema di misure cautelari) o ordine di esecuzione (art. 656 C.p.p. comma 3°) emesso dallo Stato italiano, gli altri indicati nell’art. 6 della legge in esame che sono significativi:

  • in riferimento alla cittadinanza dell’interessato (particolarmente rilevante ai fini della lett. r art. 18 l. cit., in tema di rifiuto della consegna);
  • per l’indicazione della natura e qualificazione del reato (particolarmente rilevante sia ai fini della doppia punibilità, art. 7 della legge citata, che a quelli della consegna obbligatoria, art.8 legge citata) ;
  • per l’individuazione del massimo e del minimo edittale previsto nello Stato di emissione per il reato contestato ed eventuali pene accessorie.

Caratteristica della richiesta di consegna è la sua “completezza”: una delle cause più frequenti di rifiuto (art. 6 co. 6 l.cit.) delle Corti d’Appello è motivata dalla circostanza che, nonostante le sollecitazioni, la documentazione necessaria non pervenga tempestivamente (entro i 60 giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura cautelare) ai sensi dell’art. 6 legge in esame. Tale documentazione si concretizza:

    a. nella relazioni sui fatti addebitati (con indicazione delle fonti di prova, del tempo e del luogo di commissione),

    b. nel testo delle disposizioni di legge applicabili,

    c. nella comunicazione del tipo e della durata della pena,

  1. nei dati segnaletici del ricercato.

La consegna del ricercato presuppone la c.d. “doppia punibilità” per cui l’Italia darà esecuzione al Mandato d’Arresto Europeo solo nel caso in cui il fatto sia previsto come reato anche dalla legge nazionale (art. 7) a cui si fa eccezione per i casi di “consegna obbligatoria” elencati nell’art. 8: i due istituti non trovano omologhi, in tema di estradizione, nel libro XI del C.p.p., dove si impongono alla Corte d’Appello limiti generali con l’art. 698 e il comma 2° dell’art. 705 C.p.p..

Il MAE, riassumendo, è eseguito in Italia solo in caso in cui il fatto18:

  • sia previsto come reato dalla legge nazionale19;
  • tale reato preveda una pena edittale e/o misura di sicurezza della durata massima non inferiori a 12 mesi (senza tenere conto delle circostanze aggravanti ma considerando quelle attenuanti, anche se il legislatore non indica in che misura);
  • sia stato già valutato dall’a.g. dello Stato richiedente con sentenza di condanna definitiva a pena o la misura di sicurezza della durata non inferiore a 4 mesi (art. 7).

Si fa eccezione alla doppia punibilità, come si diceva, dando comunque luogo alla consegna del richiesto quando il reato per il quale si procede sia compreso nella cd. “lista positiva dei reati”: si tratta effettivamente di 32 fattispecie criminose elencate nell’art. 8 della legge (vedasi nota 14) a molte delle quali corrispondono nel diritto italiano più ipotesi di reato; così nella fattispecie dell’art. 8 co.1 let a), facendosi genericamente riferimento ai reati associativi, si ricomprendono le ipotesi criminose di cui agli artt. 416, 416 bis C.P., art. 74 legge Stupefacenti, art. 291 legge doganale. Sempre che la pena massima (escluse le aggravanti) comminata sia pari o superiore a tre anni secondo la legge dello Stato richiedente.

Nel caso di specie compito dell’autorità giudiziaria italiana sarà quello di accertare se l’ipotesi criminosa descritta dettagliatamente nel mandato d’arresto e nella documentazione allegata dallo Stato emittente rientri nella lista dei 32.

Non si farà luogo alla consegna solo nell’ipotesi in cui il fatto non sia previsto dalla legge italiana come reato e si accerti che il cittadino italiano, senza sua colpa, non abbia avuto conoscenza dell’esistenza di quel reato nell’ordinamento dello Stato membro di emissione per cui è stato emesso il MAE.

La sinossi della procedura fin qui descritta è riprodotta nell’allegato “SCHEMA 1 – contenuti del MAE”.

- La procedura di consegna passiva (3.3.2)

La consegna può avere inizio attraverso due diverse procedure:

      a. quella conseguente alla ricezione del MAE da parte del Ministro di Giustizia e della sua trasmissione senza ritardo al Presidente della Corte d’Appello competente (art. 9),

    1. oppure quella conseguente all’arresto ad iniziativa della PG a seguito di segnalazione nel Sistema Informatico di Shengen. (art. 11)

Nel primo caso la richiesta dello Stato emittente giunge al Presidente della Corte d’Appello del distretto ove si presume che si trovi il ricercato per il tramite dell’autorità centrale e questi, accertata la sua competenza, e dato avviso al Procuratore Generale, acquisiti se necessari ulteriori documenti, riunita la Corte d’Appello ed eventualmente sentito il Procuratore Generale, pronuncia, se lo ritiene necessario, ordinanza motivata (a pena di nullità) con la quale applica la misura coercitiva in osservanza del titolo I del libro IV e dell’art. 719 del C.p.p..

Il presidente, quindi, entro 5 giorni dall’esecuzione della misura cautelare, interrogherà l’arrestato alla presenza del difensore (avvisato almeno 24 ore prima), e lo informerà: a) del mandato d’arresto europeo e della procedura esecutiva, b) della facoltà di acconsentire alla propria consegna, c) della facoltà di esercitare il diritto di specialità (art. 26), d) del diritto di informare familiari e/o consolato.

Lo stesso presidente poi, entro 20 giorni, emetterà decreto di fissazione dell’udienza camerale, disponendo che ne venga data notizia alle parti almeno 8 giorni prima della data fissata.

Nella seconda ipotesi, quando cioè il richiesto sia stato arrestato dalla Polizia su segnalazione del SIS (Sistema d’informazione di Shengen), l’ufficiale che procede all’arresto: a) entro 24 ore, lo comunicherà al Presidente della Corte d’Appello del distretto ove è avvenuto l’arresto ed al Ministro di Giustizia; (che a sua volta comunicherà l’arresto all’autorità centrale (art.4) dello Stato membro al quale chiederà l’invio del MAE e della documentazione necessaria ex art. 6), b) dovrà informare l’arrestato, in lingua per lui comprensibile sia dell’emissione e del contenuto del MAE, che della facoltà di non opporsi alla consegna, che del diritto di nominare un difensore.

Inoltre darà atto, a pena di nullità, sia dell’avvenuta informativa, che degli accertamenti effettuati per l’identificazione dell’arrestato.

Il Presidente della Corte d’Appello, entro le 48 ore successive alla ricezione del verbale d’arresto, qualora questo sia conforme alla legge (in caso contrario dovrà emettere decreto motivato di scarcerazione), procederà alla convalida dell’arresto che perderà efficacia se non giungerà la documentazione necessaria a completare la richiesta di consegna entro 10 giorni, la convalida dovrà essere applicata dopo aver sentito l’arrestato, avergli rappresentato il contenuto del MAE ed avergli chiesto se non si oppone alla sua consegna.

Di seguito si è predisposto uno schema di questa prima fase della procedura passiva di consegna: “SCHEMA 2 – MAE passivo parte prima”.

Il Presidente della Corte d’Appello, sia che il procedimento sia iniziato attraverso comunicazione al suo ufficio dal Ministero della Giustizia che nell’ipotesi di arresto del consegnando ad opera della PG, seguirà identica procedura20:

    1. se l’interessato ha acconsentito alla consegna21 fisserà l’udienza camerale entro 10 giorni;
    2. se si oppone alla consegna fisserà l’udienza camerale con decreto entro 20 giorni dall’esecuzione della misura cautelare disponendo il deposito della documentazione a corredo della richiesta di consegna e dando avviso al Procuratore Generale, alla difesa ed, eventualmente, al rappresentante dello Stato emittente (si applica il disposto dell’art. 702 C.p.p.) 8 giorni prima dell’udienza.

In sede di udienza camerale è riconosciuta alla Corte la facoltà (art. 16) di chiedere allo Stato membro emittente ulteriore documentazione (concedendogli un termine non superiore a 30 giorni) ed in caso di mancata risposta dovrà respingere la richiesta.

La Corte potrà, altresì, esperire d’ufficio o su richiesta di parte ogni altro accertamento ritenuto necessario.

Deciderà, quindi, con sentenza entro 60 giorni dall’inizio dell’esecuzione della misura cautelare (se non potrà rispettare detti termini, lo comunicherà al Guardasigilli che, anche tramite Eurojust, potrà concedergli altri 30 giorni).

La sentenza dovrà disporre: la consegna (se sussistono gravi indizi – tale requisito non è richiesto dalla decisione quadro – o vi è sentenza irrevocabile) oppure il rigetto della richiesta e, conseguentemente, revocare le misure cautelari: queste le ipotesi di cui agli artt. 2 -mancato rispetto delle garanzie costituzionali-, 17 -decisione sulla richiesta di esecuzione-, 18 -rifiuto della consegna, previsto in ventuno ipotesi e comunque nel caso di inottemperanza delle richieste della Corte.

Della sentenza è data lettura in camera di consiglio e comunicazione al Guardasigilli (che informa lo Stato emittente) e, se la sentenza è di accoglimento, al servizio per la cooperazione internazionale di polizia.

Contro la sentenza è proponibile Ricorso per Cassazione che ha natura sospensiva e devolutiva anche nel merito, è proponibile dalle parti entro 10 giorni dalla conoscenza del provvedimento. La Cassazione deciderà nelle forme dell’art. 127 C.p.p. entro 15 giorni dalla ricezione degli atti e darà lettura contestuale del dispositivo e della motivazione della sentenza, se ciò non fosse possibile, se ne dovrà dare atto nel verbale d’udienza e la motivazione potrà essere depositata entro i 5 giorni successivi. Sinossi di questa fase è riprodotta nello “SCHEMA 3 – MAE passivo parte seconda”.

La procedura si conclude con la materiale consegna all’autorità richiedente che dovrà realizzarsi entro 10 giorni dal passaggio in giudicato della sentenza (art. 23).

Il Presidente della Corte d’Appello, dato avviso al Guardasigilli, potrà sospendere l’esecuzione per motivi umanitari, o per gravi ragioni che inducono a ritenere che la consegna possa mettere in pericolo la vita o la salute della persona.

Se, per fatto non imputabile alla Corte d’Appello, la consegna non avvenisse nei 10 giorni successivi al giudicato, l’arrestato dovrà essere scarcerato.

La Corte potrà rinviare la consegna, anche in caso di altra pendenza in Italia, salvo, se necessario, la consegna provvisoria dell’arrestato.

La consegna, infine, non avrà luogo in caso di:

  • carenza delle garanzie richieste allo Stato membro di emissione (art. 19);
  • concorso di richieste di consegna (art. 20);
  • divieto di consegna od estradizione successiva (art. 25);
  • applicazione del principio di specialità (art. 26), condizione sempre posta e che si concretizza nell’impegno dello Stato ricevente a non sottoporre ad espiazione della pena o misura di sicurezza la persona consegnata per un fatto anteriore o diverso rispetto a quello per il quale la consegna è stata concessa a meno che non si verifichino le circostanze di cui al comma secondo dello stesso art. 26: permanenza volontaria del consegnato per oltre 45 giorni dopo la sua definitiva liberazione, reato punibile con sanzione non privativa della libertà personale, rinuncia dell’interessato al principio di specialità.
  • Nell’ipotesi di transito del richiesto sul territorio dello Stato, la richiesta è rivolta al Guardasigilli che può:
    • rifiutarla (per carenza di documentazione);
    • condizionarla, se vi è anche condanna in Italia, alla consegna dell’interessato all’autorità Italiana per scontare la pena inflitta dopo aver scontato quella per cui è in transito.

Sinossi di questa fase è riprodotta nello “SCHEMA 4 – MAE consegna”

- La procedura di consegna attiva (3.3.3)

È trattata nel Capo II del Titolo II della legge in esame in soli sei articoli che riconoscono la competenza di spiccare il MAE al giudice che ha emesso la misura cautelare, nel caso di procedimento pendente, od al PM presso il giudice dell’esecuzione, se si tratta di dare attuazione ad una sentenza definitiva.

Si applicano i limiti dei commi 3 e 4 dell’art. 7: la pena deve essere non inferiore a 4 mesi ed in caso di misura cautelare o di sicurezza il fatto deve prevedere una pena edittale non inferiore ai 12 mesi e non deve operare alcuna sospensione dell’esecuzione.

Sotto il profilo procedurale l’autorità che ha emesso il MAE lo trasmetterà al Guardasigilli e ne darà comunicazione al Servizio per la cooperazione internazionale di polizia e al SIS, curando il rispetto dell’art. 30 della legge (cioè l’indicazione: dell’identità e cittadinanza del ricercato, dei dati anagrafici, dell’esistenza della misura in esecuzione, della natura e qualificazione giuridica del reato, della descrizione completa del fatto, della pena inflitta, delle altre conseguenze del reato). Il mandato d’arresto perderà efficacia quando il provvedimento restrittivo sulla base del quale è stato emesso sia revocato, annullato o divenuto inefficace.

Per completezza si ricorda che il principio di specialità trova applicazione con i limiti dell’art. 26 e che della custodia cautelare all’estero si tiene conto, ai fini del computo ex art. 303 C.p.p. ma solo per i termini massimi, non per quelli di fase.

Sinossi della procedura attiva è riprodotta nello “SCHEMA 5 – MAE procedura attiva”.

- Misure reali (3.3.4)

Le misure reali sono trattate nel Capo III del Titolo II: operano sia nella procedura attiva (art. 34) che in quella passiva (art. 35) di consegna.

Nella prima (art. 34) il Procuratore Generale può chiedere con il MAE all’autorità giudiziaria dello Stato membro d’esecuzione anche la consegna dei beni per i quali è stata emessa confisca o sequestro.

Nella seconda (art. 35), a fronte della richiesta dello Stato emittente, la Corte d’Appello competente può disporre, d’ufficio o su richiesta, il sequestro dei beni necessari ai fini della prova oppure suscettibili di confisca, previa acquisizione della documentazione necessaria.

Se concorre confisca in Italia e confisca o sequestro richiesto da uno Stato membro, prevale il provvedimento italiano, ma può essere disposta una consegna temporanea dei beni a fini probatori (art. 36).

Sinossi di questo capo della legge è contenuta nello “SCHEMA 6 – MAE misure reali”.

- disposizioni finali e transitorie (3.3.5)

Nelle disposizioni finali di rito si ricordano ancora una volta gli obblighi internazionali dello Stato italiano ed il rispetto del principio di specialità e si ribadisce che il MAE deve considerarsi una lex specialis che, laddove non provvede, viene completata dalle norme del Codice di procedura Penale e delle leggi complementari. La legge termina con due significative note: ricordando che non si applica la normativa in tema di sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (l. 742/1969) e che la legge si applica ai soli mandati d’arresto emessi o ricevuti dopo la data della sua entrata in vigore.

§ 4 - Del mandato e dell’estradizione

Il MAE22, ha stretti rapporti con l’istituto dell’estradizione, sia perché questa, lex generalis, completa le lacune della legge 69/2005, sia perché permane la sua validità per fatti antecedenti all’operatività della nuova legge: la consegna dovrà essere richiesta dallo Stato membro attraverso l’estradizione quando si tratti di episodi antecedenti al 2002 o quando la domanda sia pervenuta prima del 14 maggio 2005.

Avendo delineato l’istituto del MAE, come previsto nella legge del 2005, sarà agevole sottolinearne le peculiarità nei confronti dell’estradizione23. Si tratta di differenze di impostazione (individuabile nei rapporti tra autorità giudiziarie nel caso del MAE e fra Stati in quello dell’estradizione) e di operatività (il MAE è caratterizzato da maggiore agilità della procedura e dalla necessità del rispetto di termini perentori).

I due istituti, inoltre, convivono, si pensi ad una richiesta di consegna a seguito dell’emissione di un MAE ed alla contestuale richiesta di estradizione dello stesso latitante da parte di Paese terzo, fattispecie possibile anche nell’ambito dello stesso processo (la DQ e la legge, regolando questo punto, riconoscono la competenza del Ministro per le decisioni da assumere).

Il Ministro della Giustizia, in virtù dei poteri attribuitigli dalla legge in materia di estradizione, si è sempre uniformato al principio secondo cui venivano avanzate domande di estradizione solo nel caso di condanne recanti una pena definitiva non inferiore a quattro anni di reclusione. Considerati invece i limiti di pena previsti per l’emissione del MAE e tenuto conto del fatto che sovente i due sistemi del mandato d’arresto europeo e dell’estradizione convivranno, da alcuni è stato suggerito che le autorità giudiziarie dell’esecuzione continuino a richiedere la consegna solo nell’ipotesi di gravi reati o importanti condanne da espiare al fine di evitare l’inoltro di un numero eccessivo di mandati di arresto, che inevitabilmente finirebbero per pregiudicare o ritardare l’esecuzione di quelli cui si sia ritenuto di annettere primaria rilevanza.

§ 5 - Dell’applicazione del MAE: attualità e prospettive

L’applicazione del nuovo istituto non è stata agevole, nonostante la predisposizione della modulistica utilizzabile tanto per l’inoltro al SIS che per la richiesta all’A.G. straniera tramite il Ministero di Giustizia e la realizzazione di un sito per il MAE in formato elettronico word dove è possibile reperire detti modelli.

La maggiore celerità del MAE rispetto all’estradizione, infatti, non è sfuggita alla regola del ubi comoda ibi incomoda. I minori tempi del mandato d’arresto europeo, che lo rendono più agile rispetto all’estradizione, rappresentano, anche, le ragioni più frequenti del rigetto delle domande di consegna degli Stati emittenti24, che talvolta non rispettano il termine per l’invio della documentazione richiesta (di 30 gg) e permettono il trascorrere dei sessanta giorni dal momento dell’inizio dell’esecuzione che comporta il rifiuto della consegna. Secondo le statistiche offerte nella 2732° sessione del consiglio giustizia affari interni tenutasi in Lussemburgo il 1 giugno 2006, delle 1526 persone arrestate in forza del MAE ben 1295 sono state effettivamente consegnate allo Stato membro e fra queste 309 erano cittadini dello Stato richiesto. La Corte d’Appello di Genova ha ricevuto le seguenti richieste di consegna da parte degli Stati emittenti: 5 per l’anno 2005; 11 per l’anno 2006, e 3 fino al febbraio 2007; di queste, ne sono state accolte 16; fra quelle respinte una è stata motivata dalla mancata tempestiva acquisizione della documentazione richiesta e necessaria mentre un’altra è stata semplicemente inviata al giudice territorialmente competente e per l’ultima, formulata dal Belgio, si trattava di un errore di persona.

Il quesito che si è posto è stato quello della riproponibilità, da parte dello Stato emittente, della richiesta di consegna, adeguatamente corredata, nel caso di rifiuto della Corte per mancato invio della documentazione richiesta. La legge 69/2005 nulla dice in proposito, ma soccorre, il disposto dell’art. 707 c.p.p., in tema di estradizione, che preclude una nuova richiesta dello Stato emittente su identici presupposti. Questa interpretazione, che appare allo stato l’unica proponibile, comporta che la nuova documentazione non rappresenti un presupposto nuovo alla richiesta di consegna.

È una facile profezia il prevedere che i MAE aumenteranno con la recente espansione dell’UE a 27 membri; è lecito domandarsi, qualora le frontiere Comunitarie dovessero espandersi ulteriormente, a stati come la Turchia25, che conta circa 67 milioni di abitanti di cui il 99% di religione musulmana, quali inevitabili ulteriori problemi interpretativi si verificherebbero considerando che la lotta alla criminalità internazionale organizzata comporta per gli Stati una naturale, quanto sgradita, perdita di una parte della loro sovranità.

In conclusione pare quindi che il MAE sia uno strumento indispensabile per l’integrazione fra gli Stati europei per bilanciare la libera circolazione della popolazione con una parallela libera circolazione delle sentenze, ora non più solo civili-commerciali ma anche penali e che, se è vero che il suo utilizzo dovrà diventare sempre maggiore con l’espansione dei confini comunitari, certo dovranno apportarsi le opportune modifiche per adeguare l’ordinamento a realtà sociali e giuridiche estremamente diverse.